L'anno scorso, al Festival Internazionale del Cinema di Roma, era stato presentato con successo "
Dallas Buyers Club" di Jean-Marc Vallée, del quale correva voce che sarebbe stato uno dei
runner-up più forti per gli Academy Award, almeno in chiave attoriale e, difatti, le candidature per il duo protagonista composto da Matthew McCounaghey e Jared Leto si è concretizzato in una vittoria nelle rispettive categorie. Nella nona edizione della manifestazione capitolina, un ruolo molto simile tocca ora a "Still Alice" di Wash Westmoreland e Richard Glatzer, registi indipendenti che si erano fatti notare (e premiare) al Sundance Film Festival con "Quinceañera" (2006). Il film è tratto dal romanzo della neuroscienziata Lisa Genova che dall'auto-pubblicazione è passata in breve tempo a vendere centinaia di migliaia di copie e narra la storia di Alice Howland, apprezzata docente di psicologia cognitiva (ed esperta in linguistica) dell'università di Harvard, alla quale, a cinquant'anni, viene diagnosticato una precoce forma di Alzheimer.
Si tratta dunque di un altro film che è centrato sul decorso di una malattia, sebbene l'Alzheimer al cinema si sia visto meno, raccontato come è nella percezione comune, cioè quale malattia dell'anzianità, e declinata in maniera differente, dalle gag de "
La famiglia Savage" al dramma di "Away From Her". Il registro di "Still Alice" è più vicino al secondo esempio, filtrato dal punto di vista di una donna in carriera, affermata e nel pieno delle sue facoltà. Nell'adattamento per il grande schermo Alice diventa direttamente professoressa di linguistica, una persona che, come confessa la stessa alla figlia minore (Kristen Stewart), si è sempre autovalutata in base alla potenza dell'intelletto, all'abilità di articolare ragionamenti e discorsi, ai riconoscimenti per i suoi studi accademici; e la malattia si insidia tra le pieghe di queste certezze (il marito ripete che è la donna più intelligente che abbia mai conosciuto), erodendole e incrinando le capacità cognitive della protagonista. I primi segnali sono dimenticanze, lapsus, fino a una momentanea amnesia che non le fa riconoscere più i familiari luoghi nei quali fa jogging ogni giorno: l'aspetto effettivamente interessante di "Still Alice" è quello di utilizzare il lavoro della protagonista come referente perfetto per la manifestazione del morbo di Alzheimer. Malattia che si manifesta come un
gap del linguaggio, un gap che si amplifica fino a creare delle voragini nella memoria.
Tali idee rimangono però legate unicamente al piano della scrittura, non venendo veramente espresse per mezzo del linguaggio cinematografico, se si eccettua il primo smarrimento mnemonico di Alice, abbinato a una soluzione stilistica brillante, il fuori fuoco che appanna il mondo intorno a lei che diviene - a tutti gli effetti - non riconoscibile. Per il resto, Westmoreland e Glatzer realizzano un film dal montaggio pulito e lineare, con una fotografia nitida dai colori autunnali, prediligendo sempre e comunque il personaggio sul contesto, il corpo attoriale sullo spazio. La sceneggiatura non si fa mancare certi cliché: la caratterizzazione dei familiari, in particolare dei figli, suddivisi tra i primi due allineati al modello genitoriale, e la minore, ventenne con ambizioni artistiche, andata a vivere a Los Angeles in aperta opposizione alla madre; e alcune scelte poco efficaci come il parallelismo generazionale con l'AIDS, le proclamazioni impegnate civilmente solo sulla carta e i ricordi della protagonista tradotti in immagini in bassa definizione, com'è consuetudine tra i Sundance Kids di ultima generazione. I due autori, che vorrebbero mantenere il dramma nei canoni di un cinema da camera intimista (il faro dovrebbe essere l'Ozu di "
Viaggio a Tokyo"), rischiano più volte di far scadere il
pathos in patetismo, tradendo le intenzioni di partenza con soluzioni tipicamente hollywoodiane, sintetizzabili anche solo con una scena: il movimento circolare della macchina da presa che, stringendo sul volto contrito di Alice, ci avvicina emotivamente alla sua tristezza, mentre in sottofondo cresce l'altrettanto triste commento musicale.
L'Alice del titolo, a cui dà volto, corpo ed espressioni un'ispirata Julianne Moore, appare all'inizio del film in un primo piano insistito, a rimarcare come sia lei il fulcro dell'opera. La Moore, protagonista di quasi tutte le scene, salva il proprio personaggio da un'interpretazione giocata sul filo dell'istrionismo, alternando con mirabile intensità i pieni e i vuoti della sua memoria che regalano ancora sprazzi di gioia e la disperazione per una malattia inarrestabile. Ci permettiamo solo di insinuare che la diva sfatta e isterica di "
Maps to the Stars" fosse stata, per la Moore, una performance ben più spiazzante e, sul piano fisico, anche più coraggiosa della presente.
18/10/2014