Le calde e appiccicose sabbie del Texas di metà anni 80 velavano i corpi dei cowboy dei nostri tempi, seccavano l'avanzamento di un coscienzioso sviluppo morale che poteva tener testa allo spettro di una nuova epidemia. Era La Malattia, innominabile, avvolta in un alone di mistero e vergogna. "La malattia degli omosessuali" e non solo a detta della forte schiera di omofobica popolazione. E tale è rimasta per diversi anni, impossibilitata nello scavalcare la staccionata dell'inconsapevole ignoranza.
Era omofobico Ron Woodroof, elettricista che tirava a campare, cowboy da rodeo, come suoi amici dai modi comportamentali poco ortodossi. E donnaiolo incallito: rapporti sessuali come esigenza che travalicava fattori ai suoi occhi marginali; come, ad esempio, il mancato uso di un preservativo, motore della sua storia, di molte altre storie, e del film.
Contro ogni aspettativa anche quando la cognizione popolare ha voluto e saputo aprire gli occhi, i film con al centro l'annosa malattia dell'Aids restano a oggi pochi: il successo planetario di "Philadelphia" di Jonathan Demme (1993) non ha stravolto l'andazzo.
"Dallas Buyers Club" proviene da lontano, quando Woodroof era ancora vivo e apprese con entusiasmo l'idea di un film basato sulla sua pregnante vicenda. Una idea che partì dallo sceneggiatore Craig Borten, che attraversò la morte del protagonista della storia, le penne di altri sceneggiatori, le molte porte chiuse delle case di produzione, sventure e imprevisti. E, forse, tutto sommato, uno strato di timore che ancora imperversa nella possibilità di mostrare oltre che menzionare aspetti, particolari, storie dell'Hiv.
Il risultato finale è una pellicola che può dirsi indipendente: per il limitato budget, certo, ma il fatto che sia stata girata in soli 25 giorni suggerisce una sfera intima fatta di una ricerca di soffusa spontaneità che vorrebbe rifarsi ad alcuni modelli indipendenti della Hollywood del ventennio 60-70 (il regista Jean-Marc Vallée cita John Cassavetes come nume tutelare), capace di impregnare gli ambienti che vediamo di un'autenticità che vuole annullare quanto più possibile il muro della finzione.
Quella di Ron Woodroof è quindi una vicissitudine che parte dal basso: ambienti soffocanti, umanità con limitate vedute, possibilità scarsa di espandere l'orizzonte. Il cambio di rotta si ha da una implosione (la malattia) inaccettabile per se stesso ma anche per i presunti amici che lo circondano.
Questa sorta di scalata verso una concezione ampia di sé e della vita nasce dunque come un motore già proprio, seppur declinato verso il suo vecchio vivere quotidiano: quella tenacia del vivere giorno dopo giorno, senza certezze per un domani migliore. La sua lotta parte come un circuito per la propria sopravvivenza, trovandosi poco per volta a sostenere in maniera certamente non premeditata una causa che lo erigerà a portabandiera di un diritto che da privato saprà poi far valere a beneficio di comunità di sieropositivi. Per far tutto ciò sarà coadiuvato dalla dottoressa Eva, che rappresenta un filo conduttore tra il mondo medico-scientifico e quello dei marginali e invisibili malati, e dal transessuale Rayon, che forma insieme a Ron una coppia agli antipodi con il comun denominatore della voglia di (soprav)vivere.
Vallée si affida a un approccio intimista ma corretto, piuttosto classico. Tiene quasi sempre a freno il patetismo e il facile melodramma, ma sbolliti i traumi, le prime sofferenze, l'approccio per scoperte mediche, il suo film si adagia su un'onesta parabola di un uomo che sapeva combattere con un piglio a conti fatti quasi creativo le istituzioni. In nome di ciò che si muoveva nel suo corpo e nella sua mente. La classica battaglia di comunità con pochi mezzi e tante idee contro case e cause farmaceutiche, un'altra storia di Davide contro Golia, corretta e inappuntabile, ma priva di quella potenza e quelle sterzate che ci si aspetterebbero da un'anomala vicenda la cui trasposizione cinematografica è stata covata per tanti anni.
Ciò detto, se un ottimo Jared Leto ha sorpreso nella parte di un transessuale e Jennifer Garner non sfigura, l'indiscutibile motivo, volto e corpo, trasformazione fisica e ormai sbalorditiva metamorfosi attoriale, voce e cuore, è la figura di Matthew McConaughey. Nato e cresciuto nella periferia di Dallas, l'attore, ex-figura di riferimento delle commedia romantica americana, dimagrito di 22 chili, si cala nel personaggio con fare maniacale e imprime a ogni fase della vicenda di Ron, a ogni sequenza, a ogni attimo, una carica emotiva spasmodica ma non opprimente, onnipresente ma semplice conseguenza di ciò che stiamo vedendo. Una prova maiuscola che forse meritava più di un film discreto.
cast:
Matthew McConaughey, Jennifer Garner, Jared Leto, Denis O’Hare, Steve Zahn, Michael O’Neill, Dallas Roberts, Griffin Dunne
regia:
Jean-Marc Vallée
titolo originale:
Dallas Buyers Club
distribuzione:
Good Films
durata:
117'
produzione:
Voltage Pictures, Truth Entertainment (II)
sceneggiatura:
Craig Borten, Melisa Wallack
fotografia:
Yves Bélanger
scenografie:
John Paino
montaggio:
John Mac McMurphy, Martin Pensa
costumi:
Kurt & Bart