"Song of Silence" fu proiettato in anteprima al
Far East Film Festival del 2012 e, visto il buon riscontro, già allora si parlò di distribuzione; poi, come spesso accade, il film scomparve, per essere ripescato solo due anni più tardi dalla coraggiosa Distribuzione Indipendente. In quell'occasione ebbi la possibilità di intervistare l'esordiente regista cinese, accompagnato dal cast e dal produttore; tra le cose che Chen Zhuo disse, ce n'è una di un certo rilievo che somiglia a una
excusatio non petita: affermava che, sopra tutto, gli interessava sperimentare con il linguaggio cinematografico, ma che in questo caso aveva prevalso la realtà, sperando di poter immettere più elementi sperimentali nella sua opera seconda. Invero, rivedendo "Song of Silence" non si scorgono elementi definibili come sperimentali: il montaggio che chiude gli episodi, a volte lunghi, a volte brevissimi, con una dissolvenza in nero, non riesce a suggerire analogie, e la regia è perfettamente in linea col cinema indipendente cinese (e, a tratti, col cinema indipendente in generale). Il discorso da fare partirebbe dalla domanda "cosa si parla quando parliamo di realtà?", poiché il primo lungometraggio di Chen Zhuo lavora sulla forma del cinema realista, in stretta continuità con alcuni suoi illustri predecessori, tra cui è difficile non citare
Jia Zhang-ke, in particolare quello di "Unknown Pleasures" e di "
Still Life"; ed è ancora più difficile non vedere nei pochi dialoghi e in un attento utilizzo del bilanciamento della pista sonora un avvicinamento al cinema contemplativo di
Tsai Ming-liang. Il motivo di tale silenzio è non solo un segno di stile, ma è riconducibile alla protagonista, Jing, una tredicenne sordomuta che vive isolata dal mondo a causa della sua condizione. Abita insieme al nonno e allo giovane zio, che la porta a scuola su una chiatta, solcando il fiume che attraversa lo Hunan (la provincia di ambientazione): proprio con lo zio intrattiene l'unico rapporto emotivo, mentre con gli altri è scostante quando non aggressiva. Sua madre la vuole iscrivere in una scuola speciale e per un periodo la manda a vivere dal padre, ufficiale di polizia, che nel frattempo aveva deciso di convivere con la sua fidanzata, Xiao Mei. Quest'ultima è una giovane cantante cresciuta in fretta, che deve badare ai ragazzi sbandati del vicinato e a una madre, giocatrice patologica, continuamente indebitata. Quando si ritrovano tutte e due nell'appartamento dell'agente Zhang si inizia con una fiera ostilità che si tramuterà presto in solidarietà e, infine, in affetto.
Senza soffermarsi troppo sugli eventi del racconto, va dato atto a Chen di aver costruito, su una trama esile, un film che tocca numerosi temi forti, quali la disgregazione dell'unità familiare, la solitudine causata da un handicap, l'incesto e l'aborto, con una sensibilità tale da alleggerire l'opera da inutili (e facili) pesantezze. Il regista cinese, forte dei suoi trascorsi di artista visuale, ha una certa sapienza nell'assemblaggio di immagini poetiche e simboliche: colpiscono subito i campi lunghi sul fiume, in cui la ben calibrata fotografia digitale colora di un'invisibile pasta grigia le indefinibile sfumature del fiume e del cielo; oppure, la sequenza notturna sulla chiatta con lo zio che mima il canto di Pavarotti (che sentiamo dallo stereo) e la sua ripresa onirica da parte di Jing, con l'acqua del fiume tramutata in un
felliniano lenzuolo. Tale qualità, però, finisce laddove manca l'esperienza del cineasta che sa farne un uso concreto e non fine a stesso; Chen si lascia andare a quello che è un eccesso di simbolismo e a delle scorciatoie narrative che, addensando cliché e banalità, rompono una tenuta drammaturgica assai rarefatta: come altro considerare la traiettoria del personaggio di Mei, collante del rapporto padre-figlia, se non come lo stereotipo dell'artista dal passato difficile ma col cuore d'oro? La decisione a cui Mei sembra costretta, nel finale, dopo un paio di accensioni isteriche fuori luogo, è una di quelle sbavature che, insieme alla trattazione tematica dispersiva, si può addebitare ai "difetti da opera prima". Il minimalismo di Chen Zhuo rischia quindi di apparire più come una scelta di comodo che come un valore stilistico ponderato e coerentemente portato avanti.
Rimangono limiti facilmente rintracciabili e alcuni di essi perdonabili, se letti nell'ottica di un esordio indipendente e
low-budget: "Song of Silence" riafferma che non sempre bastano le migliori intenzioni per realizzare grande cinema, sebbene a tratti, Chen Zhuo, lasci intravedere delle doti registiche che varrebbe la pena seguire in un altro progetto. Magari dove potrà finalmente sperimentare con il linguaggio della settima arte.
29/05/2014