Premessa teorica. Nella seconda metà degli anni 80, analizzando l'impatto socio-economico delle innovazioni tecnologiche sulla comunicazione e sull'industria, il sociologo Itheil De Sola Pool introduce nel dibattito sui media il termine convergenza. Nel 2006 lo studioso Henry Jenkins mutua da questa definizione il concetto di convergenza culturale, che si propone di definire le logiche di funzionamento dei nuovi media e il modello culturale da essi generato. L'analisi della trilogia "Matrix" (1999-2003), contenuta nel suo celeberrimo volume "Convergence Culture", costituisce un punto di riferimento fondamentale per lo studio di quel sistema di pratiche di consumo e di produzione che hanno modificato irreversibilmente l'industria cinematografica, tanto nelle sue dinamiche, quanto nei suoi prodotti.
La Hollywood del nuovo millennio, infatti, riconfigurata all'interno di complessi e sfaccettati conglomerati mediali, genera oggetti testuali che non ricadono più nei consueti modelli di comunicazione, ma che rispondono piuttosto alle esigenze di sfruttamento sinergico, integrato e convergente dell'
high concept movie teorizzato da Justin Wyatt e del
global entertainment franchise di Thomas Schatz. Si tratta di prodotti continuamente estendibili e rimodellabili, dalle altissime potenzialità crossmediali, che si avvalgono dei processi di sviluppo tecnologico-informatico per incentivare nuove forme di fruizione, riuso e riappropriazione attiva da parte delle audience. Promuovendo, in buona sostanza, una nuova dimensione esperienziale del cinema, chiosa Francesco Casetti.
Se la macchina hollywoodiana ha dimostrato di saper mettere a sistema queste pratiche produttive, il cinema italiano, lontano dall'efficacia industriale statunitense, non sembra interessato ad avventurarsi in questi fruttiferi territori. "Smetto quando voglio - Masterclass", tuttavia, costituisce una felice eccezione che, se supportata da un adeguato riscontro di pubblico, potrebbe fare scuola. Il film, infatti, non si connota come un semplice sequel, bensì costituisce la seconda parte di una trilogia girata
back to back, come gli episodi conclusivi delle saghe "Hunger Games" e "Harry Potter" per intendersi. Inoltre, per promuovere la pellicola è stato distribuito online un divertente videogioco in HTML5, sviluppato da Diego Sacchetti di Morbidware e da Matteo Corradini dei The Pills, mentre in edicola con "La Gazzetta dello Sport" è uscito un fumetto scritto da Roberto Recchioni e disegnato da Giacomo Bevilacqua, impreziosito anche da speciali copertine ad opera di Riccardo Torti e Zerocalcare. Non stonerebbe, in questo contesto, la commercializzazione di
action figures ispirate ai protagonisti del film, come accade per i superori targati Marvel. Non a caso, il giovane, lanciatissimo regista Sydney Sibilia ha dichiarato di voler realizzare "un'operazione para-americana, becera ma ben fatta".
"Masterclass" riprende esattamente dove si era interrotto il primo "
Smetto quando voglio". Il ricercatore Pietro Zinni e la sua improbabile banda di coltissimi spacciatori
malgré eux sono in attesa del processo per le loro malefatte. Interviene l'ambiziosa poliziotta Paola Coletti (un bel personaggio femminile, in un'opera quasi esclusivamente al maschile), incaricata di arrestare i produttori di
smart drugs che infestano la vita notturna della Capitale. Il piano sembra semplice: rimettere in piedi la banda per sgominare i criminali ancora a piede libero. Gli imprevisti, però, sono dietro l'angolo.
Si capisce bene che, salvo qualche
new entry che rimpolpa il
plot, "Masterclass" è un film del tutto derivativo, che ricalca pedissequamente il capitolo precedente senza deviazioni di percorso né aggiornamenti significativi. Anche gli spunti di analisi e di denuncia sociologica, che avevano ricordato a molti l'umorismo beffardo de "
I soliti ignoti" monicelliani, appaiono qui stemperati o del tutto assenti. Sibilia, però, anche autore della sceneggiatura insieme a Luigi Di Capua e Francesca Manieri, ha l'onestà intellettuale di rendere espliciti i suoi intenti, confezionando (e vendendo) il film per quello che è e vuole essere: una picaresca commedia d'azione che guarda più al cinema americano degli anni 80 che all'ironia puntuta di Age&Scarpelli. Senza vergogna, senza velleità. Del resto, le sequenze adrenaliniche non mancano certo, mentre le risate sono garantite da un gruppo quanto mai affiatato di caratteristi in forma eccezionale, da Fresi ad Aprea, da Sermonti a Calabresi, ognuno impegnato in gag e battute genuinamente divertenti.
Onore dunque all'autore e al team produttivo (Groenlandia, Fandango e Rai Cinema) per il coraggio pionieristico, a suo modo, di aver trasformato una felice opera prima in un solido
franchise di successo. Un'operazione produttiva intelligente che, insieme ai recenti casi di "
Lo chiamavano Jeeg Robot" e "
Veloce come il vento", rischiara il futuro del cinema italiano, svincolandolo dagli altalenanti, incerti, isolati destini autoriali dei soliti noti.
01/02/2017