In una delle scene più terribili di "Siccità", Loris e Sara, una coppia divorziata, si rincontra in un reparto ospedaliero: lui è vittima di una strana forma epidemiologica non meglio identificata, lei è di turno in terapia intensiva. La figlia non c'è: è impegnata in un concerto di beneficenza dove suona il clavicembalo. Sara chiede a Loris se è dispiaciuto di non essere allo spettacolo. Lui la guarda stupito: "Musica barocca? Che due palle!". Il tutto si conclude con la riappacificazione della coppia e Mastandrea che tocca i seni a una povera infermiera, scambiandola per la ex-moglie.
Procediamo allora per induzione, cercando di capire cosa questa scena ci dice dell'ultima opera di Paolo Virzì.
Partiamo dalla malattia di Mastandrea. Più che il sintomo di un male tropicale, pare essere il segno dell'incapacità del cinema italiano di costruire metafore funzionanti. L'epidemia è infatti un chiaro riferimento al Covid-19, a cui il film è temporalmente troppo vicino per parlarne con il giusto distacco emotivo, ma fuori tempo massimo per offrire un punto di vista originale.
La Roma fotografata è un diorama dell'Italia degli ultimi tre anni: con gli scienziati alla ricerca della fama in TV, le folle imbestialite che gridano alla dittatura sanitaria, gli infermieri in prima linea, l'ansia generalizzata.
Tuttavia ogni metafora funziona come un simbolo e il simbolo, per sua definizione, è qualcosa che tiene insieme due aspetti diversi. In questo caso: il significato reale e quello metaforico. È un gioco di prestigio dove, parlando d'altro, di può discutere di ciò che sta sotto agli occhi di tutti.
Ma quando il significato metaforico finisce per rispecchiare pedissequamente il significato reale (come in questo caso) cosa resta della metafora? Nulla. Il gioco intellettuale si sgretola e il pubblico si stanca presto di essere imboccato da una sceneggiatura che lo reputa troppo stupido per comprendere retoriche più stratificate e complesse.
Lo stesso errore commesso da McKay in "Don't Look Up" (altra narrazione dell'era covid), ma ancora più esplicito, ancora più banale.
Veniamo ora alla triste battuta sulla musica barocca. Che per Virzì fosse una rottura di palle lo si poteva facilmente capire senza bisogno di quel dialogo: il concerto di beneficenza è infatti la fiera delle distrazioni. La protagonista flirta durante le prove e videochiama i genitori durante la prima (chiunque abbia frequentato anche un solo anno di conservatorio avrà ancora la pelle accapponata); l'orchestra è più attenta alla sedia vuota dell'oboista defunto che non alla bacchetta del direttore e la macchina da presa è così sbadata da non accorgersi di inquadrare gli archi ogni volta che attaccano i fiati. Ma tant'è: de gustibus non disputandum est e l'ignoranza musicale non è una colpa cinematografica. Non è questo il punto.
Il punto è invece che "Siccità" è un film che vuole a tutti i costi risultare colto, impegnato, ma che finisce per cedere inevitabilmente alle logiche nazional-popolari. Vorrebbe suonare Bach, ma si ritrova a gridare a squarciagola i successi di Mina (metafora, argh!). Non che il nazional-popolare sia una colpa o un punto di demerito, sia chiaro. Ma diventa problematico quando finisce per tradire o per contraddire lo spirito stesso dell'opera, che critica il "popolino" per poi macchiarsi delle medesime colpe.
Così, mentre i personaggi di "Siccità" si indignano perché gli utenti social preferiscono la superficialità di Coelho alla profondità di Carver, o il chiacchiericcio del jet set ai libri Einaudi, il film non si accorge di commettere lo stesso identico errore.
Nel calderone viene gettato di tutto: dalla tematica lgbt+ alla critica verso la società dello spettacolo; dalla disoccupazione al femminicidio; dall'immigrazione all'odio verso il progressismo di una sinistra-non-abbastanza-di-sinistra.
Ma alla fine, persi in un dedalo di situazioni in cui ci si è dimenticati il filo di Arianna (altra metafora, scusate!), si preferisce terminare il tutto a pizza e fichi.
Ci si abbandona così a una morale facilona, dove ciò che conta è volersi bene, perdonare e "coltivare il proprio giardino". (Ma non c'entra l'illuminismo di Voltaire: il riferimento è piuttosto alla stucchevolezza di de Saint-Exupéry, ché l'immagine del roseto annaffiato si pone precisamente a metà tra "Il Piccolo Principe" e un'etica cristiana a cui non si sa o non si vuole rinunciare).
Ma che cos'è allora "Siccità"? Un disaster movie? Un j'accuse politico? Una commedia all'italiana che ha scordato l'ironia sferzante, tragica e ineguagliabile del suo maestro Mario Monicelli?
O è semplicemente un affresco in cui, in un situazionismo denso come un quadro di Bosch, ognuno è libero di cercare il proprio vizio, di immaginare la propria idiosincrasia?
Nel fare un decalogo dei vizi degli italiani, mi pare poi che Virzì ne dimentichi due, forse i più importanti: 1) la tendenza ad essere eccessivamente critici e paternalisti nei confronti degli italiani stessi; 2) l'affidarsi all'emotività piuttosto che alla ragione.
Guarda caso, i due vizi di cui "Siccità" finisce per macchiarsi.
Prima di concludere arriviamo alla strizzatina di Loris verso la malcapitata infermiera: ennesima prova della necessità di sdrammatizzare qualsiasi drammaturgia esistente. Ecco l'indizio rivelatore, la confessione involontaria. Finalmente Virzì abbassa la maschera e ci dice la verità, ovvero che sì: Pasolini ha insegnato che i ragazzi di vita (come il personaggio di Valerio) sono fondamentali per fotografare una Roma borgatara, fatta non di maschere ma di gente vera; che Fellini è il maestro che tutti rimpiangiamo, e che la Sacra Famiglia che attraversa il Tevere in secca potrà anche non centrare assolutamente nulla con la vicenda, ma farà certo piacere a qualche intellettuale radical chic; che il neorealismo ha riportato l'attenzione verso gli ultimi e i dimenticati (come il personaggio di Silvio Orlando); ma che alla fine, ben nascosto sotto un tappeto di vergogna e di citazionismo, il più importante riferimento culturale di certo cinema italiano rimangono i Vanzina.
cast:
Max Tortora, Emanuela Fanelli, Gabriel Montesi, Sara Serraiocco, Diego Ribon, Monica Bellucci, Vinicio Marchioni, Claudia Pandolfi, Tommaso Ragno, Elena Lietti, Valerio Mastandrea, Silvio Orlando
regia:
Paolo Virzì
distribuzione:
Vision Distribution
durata:
124'
produzione:
Wildside, Vision Distribution
sceneggiatura:
Francesca Archibugi, Paolo Giordano, Francesco Piccolo, Paolo Virzì
fotografia:
Luca Bigazzi
scenografie:
Dimitri Capuani
montaggio:
Jacopo Quadri
costumi:
Ottavia Virzì
musiche:
Franco Piersanti