Danielle (Rachel Sennott), studentessa di gender business (?), viene trascinata dai genitori allo shiva (rinfresco funerario) di un defunto non meglio identificato, dove incontra la ex-fidanzata Maya (Molly Gordon) e il ricco cliente per il quale si prostituisce (a.k.a. sugar daddy). Sarebbe già difficile così, prima di veder arrivare la moglie goy (leggi: non ebrea) di lui, modella e imprenditrice, con il neonato in braccio (chi mai porterebbe un bambino a uno shiva?), prima di inviare selfie pornografici, di smarrire il telefono, di mantrugiare tartine, crostini e offerte di lavoro in una fuga precipitosa e circolare, vana quanto l’affannarsi di una vergine in uno slasher.
È un esordio col botto quello di Emma Seligman, che espande la tesi di laurea per la NYU in 78 minuti di cringe esilarante, salace e frenetico, nel quale si specchiano, rovesciate e deformate, le ansie abituali di una giovane donna litigata da pressioni sociali, ambientali, familiari, sessuali. Il progetto era già affidato in principio al fascino selvatico di Rachel Sennott, che ha avuto due anni per calarsi nella parte, trasformandosi in una maschera deadpan di insospettabile brio. Stupisce soprattutto, in mano a un’esordiente, il maturo controllo del medium. Pur giocato quasi interamente in interni, il racconto si svolge con sorprendente dinamismo, incalzato da un montaggio sincopato che mette in serie una gragnola di primi piani soffocanti. Merito da condividere con la cinematografa Maria Rusche, che intorbidisce la profondità di campo e tortura l’immagine con puntuali saturazioni, de-saturazioni e distorsioni angolari. E con la compositrice Ariel Marx, che ispirandosi alla musica klezmer (tradizione Ashkenazim) assembla una cacofonia di corde pizzicate e baccano diegetico – stridule voci di anziana, masticazione, pianti infantili, piatti sbattuti.
Si suole ripetere che commedia e horror sono i generi cinematografici che più di tutti suscitano reazioni psicosomatiche involontarie, dal riso al disgusto, passando attraverso il terrore e l’uncanny. Dati i primi piani soffocanti, gli spazi claustrofobici, gli svisamenti prospettici, le contaminazioni cromatiche e le sonorità molto vicine a Toru Takemitsu (gli spettacolari "Harakiri", "La donna di sabbia", "Kwaidan"), si può affermare con tranquillità che in "Shiva Baby" gli stilemi horror sopravanzano quelli farseschi. Tra le influenze comiche invece, molto più dei fratelli Coen ("A Serious Man"), rispetto ai quali manca il gusto per l’assurdo e la propensione esistenziale, troviamo l’impronta dei fratelli Safdie ("Good Time", "Diamanti grezzi"), alfieri del ritmo vertiginoso, della sincope narrativa, della scrittura character-based, della rivisitazione contemporanea dello schlemiel.
Se "Palo Alto" è l’ispirazione dichiarata, "Shiva Baby" assomiglia piuttosto a una riedizione contemporanea de "Il laureato". Come nel film di Nichols, modernità e tradizione sono egualmente satirizzate attraverso la figura di un personaggio principale platealmente imperfetto che risulta, nonostante tutto, facilmente empatizzabile. Come nel film di Nichols, l’emancipazione sessuale della protagonista non scaturisce dalla repressione ma dalla noia, il sentimento universale del nostro tempo – che pure, durante la visione non si percepisce nemmeno per un attimo.
cast:
Rachel Sennott, Molly Gordon, Polly Draper, Danny Deferrari, Fred Melamed, Dianna Agron
regia:
Emma Seligman
titolo originale:
Shiva Baby
distribuzione:
Mubi
durata:
78'
produzione:
Dimbo Pictures, It Doesn't Suck Productions, Bad Mensch Productions, Thick Media, Neon Heart Product
sceneggiatura:
Emma Seligman
fotografia:
Maria Rusche
scenografie:
Jack Dobens
montaggio:
Hanna Park
costumi:
Michelle Li
musiche:
Ariel Marx