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recensione di Stefano Guerini Rocco

Ci sono film che riescono a cogliere il proprio contemporaneo con sorprendente puntualità, intercettando con sensibilità e profondità di analisi lo spirito del tempo fino a diventare, al passare dei decenni, il manifesto di un'intera epoca. Distribuito, non senza polemiche, nell'inverno del 1967, "Il laureato" è senz'altro uno di questi. Rivederlo oggi, nel cinquantesimo anniversario della sua uscita, conferma con evidenza lampante quanto sia necessario leggere un'opera in relazione al contesto socio-culturale all'interno del quale è stata prodotta. Del resto, se è vero che il cinema è diventato ormai un dispositivo sociale[1] in perenne trasformazione, che reagisce e si adatta a un contesto tecnologico, mediale e culturale in mutamento, i film esigono un necessario ripensamento: non più oggetti testuali a sé stanti, bensì sistema di pratiche e relazioni che coinvolge più soggetti - industria, società, pubblico. Dunque, oltre l'iconicità della colonna sonora di Simon & Garfunkel, oltre lo scandalo della coscia di Anne Bancroft in locandina (in realtà apparteneva all'allora misconosciuta modella Linda Gray) e oltre tutta la ricca aneddotica da set di questo intramontabile cult generazionale, la pellicola di Mike Nichols si impone oggi, soprattutto, quale fotografia empaticamente lucida e politicamente acuta di un quantomai travagliato momento storico e culturale.

Zeitgeist

Il periodo a cavallo tra la fine degli anni 60 e l'inizio del decennio successivo ha assunto un valore quasi mitologico nella storia della cinematografia statunitense. Sono gli anni in cui Hollywood, opportunamente ribattezzata New Hollywood, si avvicina alle istanze espresse, spesso con il fervore della militanza, dalle forze più liberali e radicali della società. Sono gli anni in cui le major perdono (almeno provvisoriamente) la loro posizione predominante, concedendo spazio a una generazione di nuovi e giovani registi indipendenti - i proverbiali movie brats - che, per la prima volta, rivendicano una maggiore autonomia artistica e una inedita statura autoriale. Sono gli anni in cui i prodotti mainstream si contaminano con le tecniche narrative d'avanguardia del cinema europeo, favorendo la nascita del "film d'arte" hollywoodiano.[2]
Tuttavia, la fine degli anni Sessanta coincide anche con l'avvio di un periodo segnato da una preoccupante recessione economica, cui si accompagnano gravi tensioni politiche e forti spinte riformatrici sul piano sociale. Sintetizza efficacemente Geoff King: "Il movimento dei diritti civili, rivolte razziali: il black power. La controcultura, gli hippy, le droghe: il 'potere dei figli dei fiori. I giovani, la musica e la moda pop. Le proteste contro la guerra in Vietnam. La radicalizzazione studentesca e la 'Nuova Sinistra'. Una nuova ondata di femminismo e le richieste di riconoscimento dei diritti degli omosessuali. Speranze politiche, sogni e incubi. Kennedy, l'assassinio di Kennedy. Un altro Kennedy: un altro assassinio. Martin Luther King: assassinio. My Lai, la Cambogia e l'uccisione di studenti all'università del Kent State. Scontri nelle strade di Chicago. Nixon. Lo scandalo Watergate. L'umiliante ritiro dal Vietnam. La crisi petrolifera e un arretramento del potere economico americano a livello globale. Stabilire dei collegamenti tra i film di Hollywood e i tempi in cui escono non è un'operazione così semplice come spesso potrebbe sembrare. A volte, tuttavia, non è possibile sbagliarsi; i tempi si impongono con forza alla nostra coscienza, invadendo in modo inconfondibile il terreno dell'intrattenimento popolare come il cinema hollywoodiano. La fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta hanno proprio queste caratteristiche".[3]
Sono anni, infatti, in cui avvenimenti di grande drammaticità scuotono nel profondo la società statunitense, influenzandone significativamente l'immaginario culturale: il modello dell'America come luogo di libertà e democrazia, tipico del sogno kennediano bruscamente interrotto, viene irrimediabilmente intaccato. Contestualmente, gli Stati Uniti vanno incontro alla più grave crisi economica dalla Grande Depressione: si verifica una drastica flessione della produttività, cala la competitività internazionale e aumenta la disoccupazione, inaugurando così una lunga fase di stagflazione.
Naturalmente e inevitabilmente, la drammatica congiuntura economica e gli smottamenti sociali del periodo non tardano a ripercuotersi anche sulla principale industria culturale del paese: Hollywood.

Youth Culture

Mentre si assiste al declino di quelle che Lyotard ha definito le grandi narrazioni[4] della modernità, l'industria cinematografica mette in atto un profondo riassetto strutturale per fronteggiare con strumenti adeguati ed efficaci la grave contrazione del mercato interno e la concorrenza di nuovi media. Soprattutto, Hollywood intuisce la necessità di richiamare in sala il pubblico giovanile, che costituisce la porzione più rilevante della popolazione (i cosiddetti baby boomer) e gioca un ruolo decisivo nel determinare i maggiori successi commerciali (spesso inaspettati) dell'epoca.
Il riconoscimento del potenziale economico di questo preciso campione demografico avviene a partire dagli anni 50 grazie all'attestazione sociale e antropologica dei teenager come categoria altra, una tribù, "a new American caste".[5] Ma alla luce delle rivoluzioni socio-culturali dai tardi anni 60, questa sottocultura viene sempre più distintamente identificata come una controcultura, nella accezione proposta dal sociologo J. Milton Yinger: "The normative system of a group contains, as a primary element, a theme of conflict with the values of the total society".[6] Infatti, mentre la percezione dell'adolescenza come una specifica sottocultura si piega alle nuove istanze della nascente controcultura giovanile, la definizione di teen culture cede il campo al più ampio concetto di youth culture. Conseguentemente, in questo periodo, si registrano una serie di slittamenti e variazioni di significato che trasformano il teen movie in un prodotto opportunamente ribattezzato youth-cult film: "Hollywood productions specifically designed to address the counterculture".[7]
Nel tentativo di conquistare il pubblico universitario, infatti, Hollywood si dimostra pronta a capitalizzare sui temi e sulle istanze nel nuovo movimento giovanile. Il pubblico giovanile dei tardi anni 60 cerca un luogo di espressione delle proprie istanze progressiste, dei sentimenti di disagio e degli slanci utopistici. Lo trova nella pop culture, "con i suoi luoghi - spazi sociali a gestione comunitaria, gruppi creativi, laboratori teatrali, case editrici indipendenti, nuove riviste politiche, fogli, radio libere, cineclub - [...] specialmente nella musica (pop, folk e rock), nei comics, con la ‘fase libertaria' della ‘Silver Age', e nel cinema".[8] Ne sono efficace testimonianza gli straordinari e inattesi risultati al botteghino di pellicole come "Gangster Story", "Easy Rider" e, appunto, "Il laureato".

La plastica

Il caso più eclatante, in questo senso, è proprio quello de "Il laureato" di Mike Nichols, in cui un imberbe Dustin Hoffman dà corpo al personaggio di Benjamin Braddock, studente brillante e di ricca famiglia che, laureatosi, torna con difficoltà in un mondo - quello dei genitori - a lui distante ed estraneo, di cui non riconosce più consuetudini e riferimenti.
Concluso il proprio percorso di studi, infatti, Benjamin è richiamato alla casa paterna per adempiere ai propri obblighi di figlio adulto: trovare una moglie, trovare un lavoro, guidare un'auto sportiva. In buona sostanza, aderire alla replica imperterrita di un modello comportamentale che non lascia scampo, forgiato con precisione implacabile dal sistema familiare (e sociale) nel quale il ragazzo è immerso, suo malgrado. Ad attenderlo Benjamin trova i consigli castranti degli amici paterni, le attenzioni morbose di un'attempata amante, le cure assillanti di due genitori prodighi di regali, ma ciechi di fronte al malessere del figlio. Non a caso, come suggerisce sornione Mr. Robinson, questo mondo di privilegio, fatto di feste in piscina, cocktail e sigarette, può offrire un'unica cosa allo spaesato Benjamin: la plastica. "Una carriera nella plastica, l'epitome di tutto ciò che è falso, innaturale e superficiale".[9] Specchio e allo stesso tempo felice metafora dell'imperante consumismo statunitense, casa Braddock diventa una gabbia dorata dalla quale è impossibile evadere, un universo opulento e apatico, tanto chiassosamente frivolo quanto dolorosamente irreale.
"Il laureato" assurge così a vero e proprio manifesto contro "the Los Angelization of the world in which things take over a person's life",10] secondo le intenzioni espresse dal regista stesso, riuscendo a porsi in sintonia con il clima di ribellione dell'epoca e a riflettere la sensibilità radicale e antimaterialistica diffusa tra i giovani e gli adolescenti americani.
Soprattutto, il film riesce a farsi portavoce di quel generale senso di alienazione nutrito da una sempre più consistente parte delle nuove generazioni nei confronti dell'intero sistema valoriale promosso dalle generazioni precedenti. Spesso inquadrato dietro il vetro di un acquario o immerso nel silenzio ottundente della propria piscina, una muta da sub indosso a enfatizzarne anche fisicamente l'isolamento, Benjamin è espressione di un mondo a parte, una alterità ormai inconciliabile. Del resto, le sue inquietudini esistenziali non possono certo trovare risposta o sfogo né nella lascivia rapace della iconica Mrs. Robinson, né tantomeno nella bonaria inettitudine dei coniugi Braddock. Solo uccidendo metaforicamente il padre attraverso un atto viscerale ed eversivo di ribellione, il ragazzo può finalmente abbandonare - letteralmente - il mondo dei genitori, alla ricerca di un nuovo modello sociale e culturale privo di maschere costrittive e ipocrisie frustranti. Ecco, dunque, che la rivendicazione, sgraziata e inopportuna, del sentimento per la giovane Elaine si impone come un atto di sopravvivenza - meglio, di resistenza - liberatorio e necessario. Ma l'ambiguità agrodolce di cui è intriso il sorriso dei due innamorati al termine della loro rocambolesca fuga non concede consolazioni: nemmeno il vero amore può assicurare il lieto fine.

Con il suo aspetto ordinario e le sue malcelate insicurezze, Benjamin incarna dunque quel prototipo di antieroe la cui essenza smentisce l'archetipo epico e positivo del protagonista hollywoodiano, favorendo così l'identificazione empatica del pubblico giovanile della controcultura. Non a caso, all'uscita del film, ragazzi e teenager statunitensi affollano le sale cinematografiche, decretando per la pellicola un successo tanto eclatante quanto inaspettato. Tale affermazione commerciale, cui si accompagna il conseguente valore di evento culturale, sancisce in definitiva la rilevanza de "Il laureato" quale "fatto sociale totale".11] Una rilevanza che perdura ancora oggi, a cinquant'anni dalla prima proiezione.

Note

[1] L. Malavasi, R. Fassone, Dopo il postmoderno: il cinema contemporaneo, in Carluccio, Giulia, Malavasi, Luca, Villa, Federica (a cura di), Il cinema. Percorsi storici e questioni teoriche, Roma, Carrocci, 2015.
[2]
 L. Myles, M. Pye, The Movie Brats: How the Film Generation Took Over Hollywood, New York , Holt, Rinehart and Winston, 1979.
[3]
 G. King, La Nuova Hollywood, Torino, Einaudi, 2004.
[4]
 J.F. Lyotard, La condizione postmoderna, Milano, Feltrinelli, 1979.
[5]
 D. Macdonald, A Caste, a Culture, a Market, «The New Yorker», November 22, 1958.
[6]
 J.M. Yinger, Contraculture and Subculture, in Arnold, David O. (a cura di), The Sociology of Subcultures, Berkeley, Glendessary Press, 1970.
[7]
 S. Cagin, P. Dray, Hollywood Films of the Seventies: Sex, Drugs, Violence, Rock'n'Roll and Politics, New York, Harper & Row, 1984.
[8]
 F. Di Chio, American Storytelling. Le forme del racconto nel cinema e nelle serie TV, Roma, Carocci, 2016.
[9]
 G. King, La Nuova Hollywood, Torino, Einaudi, 2004.
[10]
 E. Sorel, The Graduate, «Esquire», May 5, 1980.
[11]
M. Mauss, Saggio sul dono: forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Torino, Einaudi, 2002.


29/05/2017

Cast e credits

cast:
Dustin Hoffman, Anne Bancroft, Katharine Ross, William Daniels, Elizabeth Wilson, Murray Hamilton


regia:
Mike Nichols


titolo originale:
The Graduate


durata:
106'


produzione:
Lawrence Truman Productions


sceneggiatura:
Calder Willingham, Buck Henry


fotografia:
Robert Surtees


montaggio:
Sam O'Steen


musiche:
Simon & Garfunkel


Trama

Concluso il proprio percorso di studi, Benjamin Braddock, studente brillante e di ricca famiglia, torna con difficoltà in un mondo – quello dei genitori – a lui distante ed estraneo, di cui non riconosce più consuetudini e riferimenti.