Firma illustre della nuberu bagu (ヌーベルバーグ), versione giapponese della nouvelle vague, Hiroshi Teshigahara non ha avuto in Occidente la stessa attenzione di altri grandi registi come Shohei Imamura e Nagisa Oshima, malgrado il successo clamoroso de "La donna di sabbia" (砂の女 suna no onna), vincitore del Prix du Jury a Cannes 1964 (giuria presieduta da Fritz Lang). Secondo lungometraggio dopo il cupo "Otoshiana" (おとし穴, 1962), che già mostra una peculiare commistione di denuncia politica e genere fantastico, l'opera si basa su un soggetto romanzesco di Kobo Abe, prolifico scrittore e drammaturgo. "La donna di sabbia" condivide con molte opere coeve della nuberu bagu un piglio sperimentalista, tematiche scabrose e un’attiva militanza volta alla critica e alla decostruzione dei fondamenti ideologici della modernità (Sato 1982). Rispetto a esse però, l’opera di Teshigahara si distingue per lo stile surreale di inclinazione cauchemardesque: un vivido incubo girato in bianco e nero, che accumula in un climax visionario echi filosofici e suggestioni erotiche. Inoltre (non è un premio, ma poco ci manca), figura tra i film preferiti di Andrei Tarkovsky.
Persona
Niki Junpei, entomologo dilettante, chiede tre giorni di ferie per una spedizione scientifica da condurre fra le dune di una remota provincia marittima, nella speranza di classificare una nuova specie. Nel Giappone del 1964, la figura dell’insetto suscita nell’immaginario collettivo una spontanea identificazione; soltanto l’anno precedente, Shohei Imamura aveva girato "Cronache entomologiche del Giappone", storia di una donna che sciupa la propria esistenza ripetendo compulsivamente gli stessi errori. Per mezzo di semplici istruzioni genetiche gli insetti si organizzano in colonie complesse, contraddistinte da uno schema gerarchico e una rigida osservanza dei ruoli: impossibile non riconoscere in questa descrizione l’autoritratto critico della società giapponese post-bellica, dove si estende l’ombra di una crescente alienazione sotto il sole del progresso. E proprio sotto il sole cocente, coricato sul relitto di una barca in secca, Niki riconosce la dimensione opprimente della vita urbana. Attestati, certificazioni, contratti, registrazioni, licenze, permessi, diplomi, fatture, si moltiplicano tra gli individui come "infinite prove di innocenza". È il primo sintomo che sancisce il distacco progressivo fra percezione di sé e persona sociale.
In latino, persona indicava infatti non un individuo bensì una maschera teatrale, un ruolo. All’etimologia si ricollegò Jung, che definì la persona come "pubblica immagine di un individuo" (Jung 1953), ponendo le basi per una rinnovata indagine del rapporto fra soggetto e società, motore dialettico dei processi complementari di identificazione e alienazione. Mentre Niki arranca nel paesaggio desertico, inquadrato da opposte angolazioni in una frenetica alternanza di piani e campi (un po’ come accadeva all’inizio di "Rashomon"), la perdita dell’orientamento prefigura la separazione dal ruolo assegnato nel cosmo sociale, sorretto da obblighi, ruoli, marchi, scadenze. Partito l’ultimo autobus, Niki chiede ospitalità al villaggio di pescatori, che lo alloggia presso una vedova in una stamberga fatiscente adagiata sul fondo di una cava di sabbia. Qui incontra l’autentico protagonista del film, l’Assurdo, che irrompe in tutta la sua virulenza.
L’Assurdo
Secondo la vedova la sabbia porta il legno a marcire, lo imputridisce. Niki le spiega che non è fisicamente possibile. Il deragliamento della storia oltre i binari della normalità inizia con un innocuo bisticcio e dilaga con il passare delle ore. La vedova impiega le notti spalando la sabbia, che altrimenti seppellirebbe la casa così come ha seppellito, con una frana assassina, il marito e la figlia. Al mattino Niki si allontana mentre la donna riposa nuda sul tatami. Ma la scala è scomparsa e non ha modo di risalire la fossa. "Ho un lavoro, il tempo è prezioso" dice lui; "I venti del nord arriveranno presto" risponde lei. È il principio di una cattività morbosa, impressa nel bianco e nero angoscioso di una fotografia materica (Hiroshi Segawa), che restituisce in maniera cruda e tangibile la grana fine e fluida della sabbia, la consistenza dei corpi.
All’evocazione di tale materialità contribuisce una colonna sonora composta da lamenti, sospiri, legno che scricchiola, urina che gocciola sulla sabbia, mentre il commento musicale (Toru Takemitsu) non asseconda l’azione; piuttosto, la deride. Le note acute e lamentose tratte dal biwa (liuto giapponese) e dallo shakuhachi (flauto di bambù) erompono nel silenzio in folate disarmoniche, come un vento metallico. Niki scala una parete di sabbia, viene travolto, offende la vedova, la lega, la sevizia. Ma la fuga ha ormai la consistenza di un miraggio, come suggeriscono le incantevoli esposizioni multiple che sovrappongono l’acqua corrente alla sabbia, le curve femminili alle dune. In quelle curve il protagonista affonda la propria disperazione, abbandonandosi a un amplesso sudicio e rabbioso. L’Assurdo pende ormai su di lui come un’autorità insondabile e crudele che impone un processo di adattamento doloroso – come per il Samsa di Franz Kafka, autore ammiratissimo da Kobo Abe.
Metamorfosi
Affamati dalla comunità locale, unico anello di congiunzione tra isolamento e urbanità, Niki e la vedova non hanno altra scelta che continuare a spalare dal crepuscolo all’alba. Teshigahara sprofonda lo spettatore in una penombra avvolgente, moltiplicata in un intreccio di impudici close-up che indugiano su corpi umidi di sudore, sporchi di sabbia, bagnati di schiuma, strofinati avidamente. Nella casa tra le dune la vita si riduce agli impulsi elementari: cibo, acqua, sesso. A questo punto non siamo più spettatori ma voyeur, una tendenza amplificata dagli abitanti del villaggio, che offrono a Niki mezz’ora di libertà in cambio di un rapporto sessuale consumato in pubblico, celebrato a tamburi rullanti e danze sfrenate in una furia orgiastica che richiama la ritualità pagana e animista. Proprio la dimensione primitiva di questa "psycho-sexual adventure" (Ebert 1964) spinge a riflettere sul divario progressivo tra urbanità e natura, laddove anche l’appartenenza alla società civile sembra prevaricare, se non addirittura annichilire, la libertà dell’individuo.
È qui infatti che la surrealtà si fa più reale del reale, offrendo l’opportunità per una lettura politica del testo filmico. Il villaggio fra le dune è una parodia grottesca del socialismo, che impone una comunione forzata delle risorse in cambio di beni primari, barattando la libertà del cittadino per un perverso ideale di giustizia che riporta l’uomo all’animalità. Allo stesso modo, Teshigahara (sul solco del soggetto di Abe) rifiuta la scelta liberale che è il presupposto fondante della società capitalista: il villaggio vende sabbia scadente alle industrie edili, finanziando l’abusivismo e l’illegalità nel cuore del cosiddetto mondo civile. Costretto a scegliere fra l’iniqua tirannia del capitale e la schiavitù ideologica del modello comunista, l’individuo vive sotto scacco, incasellato in un reticolo di divieti e responsabilità che lo trasforma in una creatura depensante e laboriosa.
Come un insetto.
La fuga
L’occasione per fuggire si manifesta casualmente. Sotto le dune compatte, sferzate dai venti, l’epifania dell’acqua. Niki scopre una falda sotterranea, comprende che l’intera cava funziona come una enorme pompa aspirante. Architetta, conti alla mano, una titanica evasione, sventata ancora una volta dall'imprevedibile ironia del destino: la donna è incinta. Una gravidanza innaturale, come la loro unione, come la moderna civiltà. Gli abitanti del villaggio soccorrono la donna ma dimenticano la scala, così un incredulo Niki può finalmente risalire e guadagnare la vista del mare – archetipico orizzonte di libertà. Ma dopo qualche passo rinuncia a quell’orizzonte e torna sul fondo della cava, riconciliato con il suo ruolo.
Sono passati sette anni dal primo giorno di prigionia, quando chiedeva alla donna "Spali sabbia per vivere o vivi per spalare?" Ma quella domanda non ha più senso. Il tempo trascorso – di cui la sabbia è metaforica concretazione – ha operato il distacco definitivo dalla persona, rivelando che anche l’esistenza civile è una forma di cattività, sebbene istituzionalizzata. In questa prospettiva, spalare sabbia in un villaggio sperduto e iscrivere il proprio nome nell’atlante di entomologia sono due scelte perfettamente equivalenti. Non è più l’Assurdo kafkiano a balenare fra le dune, bensì l’Assurdo degli esistenzialisti francesi, di Sartre, di Camus: non infiltra la realtà in maniera estemporanea, è la realtà stessa a palesare la propria assurdità congenita. La libertà, sostiene Sartre, condanna l’uomo a scegliere quotidianamente fra uno spettro di infinite alternative, tutte egualmente prive di senso (1943). Ogni esistenza umana, sostiene Camus, è esemplificata dal mito di Sisifo, condannato per l’eternità a spingere un masso sulla china di una montagna solo per vederlo rotolare giù al calar della sera (1942). Poche altre opere, nel cinema e nelle arti, hanno espresso l’Assurdo con tale poetica intensità e seducente amarezza.
Quale eredità?
Il termine johatsu 蒸発 significa letteralmente "evaporazione", e si riferisce alle migliaia di persone che ogni anno a causa di debiti, divorzio, licenziamento o senza causa apparente, scompaiono nel nulla. Lo stesso fenomeno diviene pochi anni più tardi il soggetto di un caustico docufiction di Imamura, "Evaporazione dell’uomo" (人間蒸発 ningen johatsu, 1967), ma sbaglieremmo a crederlo un problema endemico della società giapponese. Forse lo è l’effetto, ma non la causa, ovvero il malessere diffuso che accompagna il fallimento della persona sociale che abbiamo scelto, o che abbiamo creduto di essere.
Tuttavia, limitarci a questa interpretazione sarebbe riduttivo. La lotta di Niki contro la sabbia è in primo luogo la storia di un essere umano che combatte contro una forza volatile, impalpabile, eppure terribilmente difficile da dominare: il tempo, il desiderio, la paura, la sofferenza, la malattia, la rabbia, l'ambizione, la caducità... In questo senso "La donna di sabbia", più che attuale, è un'opera universale. Mirabile sintesi di materia e stile, tuttora pulsa nella galassia cinema con l'intensità cupa e vorace di un buco nero.
Bibliografia estesa
Camus, Albert. Le Mythe de Sisyphe. Parigi: Gallimard, 1942.
Ebert, Roger. "Woman in the Dunes" in Chicago Sun Times, 1964 [ripresa da www.rogerebert.com].
Jung, Carl G. Two Essays on Analytical Psychology. Londra: Routledge, 1992.
Sato, Tadao. Currents In Japanese Cinema. New York, Tokyo: Kodansha, 1982.
Sartre, Jean-Paul. L'Être et le néant. Parigi: Gallimard, 1942.
cast:
Eiji Okada, Kyoko Kishida
regia:
Hiroshi Teshigahara
titolo originale:
Suna no onna
distribuzione:
Toho
durata:
146'
produzione:
Teshigahara Production
sceneggiatura:
Kobo Abe
fotografia:
Hiroshi Segawa
scenografie:
Totetsu Hirakawa, Masao Yamazaki
montaggio:
Fusako Shuzui
musiche:
Toru Takemitsu