Il cinema americano indipendente dei primi anni 2000 si è imbottigliato pian piano nell'effetto della carineria stucchevole. Con personaggi coloriti, attenzione esagerata ai cromatismi di scene e costumi, vicende dolceamare comunque rassicuranti.
Vi è sempre stata però una controparte più nascosta che si premuniva di spegnere gli eccessi, ripulire la patina, cavare autenticità da personaggi che rischiavano la parodia di se stessi.
Alcune caratteristiche di questo cinema indipendente si sono imposte e autori come Kelly Reichardt o il primo David Gordon Green si son fatti precursori di rappresentazioni di spoglie province, di atmosfere grigie e problematiche, di sfumature che emergono dal non detto, di drammaturgie ridotte all'osso, dove ciò che sta accadendo può essere la conseguenza di una interpretazione.
A 14 anni dal debutto "Down to the Bone" e ben 8 anni dopo "Un gelido inverno", Debra Granik dirige il suo terzo lungomtraggio di finzione e il processo di sottrazione attuato da coeve produzioni risulta in fase avanzata: sono fondamentalmente due i personaggi di "Senza lasciare traccia", un padre ed una figlia, mentre l'umanità che li circonda è ridotta pressochè ad accessorio: poche sono le domande che scaturiscono dal mondo esterno, almeno fino ad un certo punto del percorso dei due. Pochi sono i luoghi che incontriamo o, comunque, la lenta e lunga fuga è uno stato che prescinde da ciò che i due intravedono in Forest Park, un grande bosco di Portland, Oregon.
Partendo da una sommaria lettura sociologica, il film si propone come una ennesima variazione sul tema dalla primordialità dei legami familiari in contrapposizione alla società dei consumi capace di fagocitare gli aspetti più intimi, essenziali, incontaminati, necessari per lo sviluppo e la crescita delle nuove generazioni. Era un discorso che si faceva in tempi recenti per comprendere le furberie che c'erano alla base di "Captain Fantastic" ma che nel film della Granik non soltanto sono materia implicita ma, al contrario, man mano lo spettatore finisce con lo scordare "il messaggio" tanta è la distanza ravvicinata tra lo sguardo della regista e i suoi protagonisti. Lo scenario resta uno sfondo imprescindibile: memori delle montagne del Missouri che dominavano "Un gelido inverno", palese risulta la predilezione della Granik per zone geografiche non dipendenti da moderne industrializzazioni: non a caso alcune comunità poste nelle zone del Nord Ovest degli Stati Uniti d'America sono ferventi sostenitrici di uno stile di vita a impatto zero. Ma Will e Tom vogliono andare oltre, liberi da ogni possibile legame che non sia quello di padre-figlia ignorando, forse, una conseguente e inevitabile dipendenza dell'uno per l'altra.
Allo spettatore si suggerisce che Will è un veterano di guerra, ma poche altre sono le storie di un passato che c'è e che pesa, ma del quale non siamo informati. Fin dal principio, dunque, la pellicola pone molte domande, dentro e fuori la storia, sul passato, il presente ed il futuro dei personaggi che dominano il film. Resta aperto il passato, resta aperto il futuro, suggerito si ritrova il presente: "Senza lasciare traccia" è tutto declinato sulla concretezza del presente. L'istinto della sopravvivenza, in prima battuta, del dove rifugiarsi e cosa fare per giungere al successivo giorno, per mangiare e dormire, per fare bisogni e nascondersi da autorità e istituzioni. E sulla unicità del legame di Will e della figlia Tom che prende acqua e forza da gesti, sguardi e decisioni di una quotidianità che sembra segnata.
La straordinarietà dello stile di vita tanto basta alla storia - ispirata al romanzo "My Abandonment" di Peter Rock e che a sua volta si rifaceva a fatti realmente accaduti - per romanzare il suo sviluppo: la drammaturgia è asciugata da elementi melodrammatici e anche la componente thriller, che una storia del genere sottintende, manda alla deriva le proprie ipotesi da film "di genere". Come accadeva alla Ree di "Un gelido inverno" la presa di coscienza, con conseguente possibilità di riscatto, è affidata ad una giovane figura femminile e ancora una volta la Granik offre ad una attrice non ancora affermata una interpretazione di ragguardevole intensità: classe 2000, la neozelandese Thomasin McKenzie è una attrice che si spera di rivedere presto ed è qui assecondata molto bene dal più noto Ben Foster.
Ciò che il film non riesce pienamente a trovare è un significativo sviluppo se paragonato al suo predecessore: nel voler ulteriormente asciugare, avanzare il cammino in levando mettendo al centro persone più che storie, si ha l'impressione di una contrapposizione fin troppo marcata rispetto all'indipendente cinema colorato e dolciastro del quale si parlava inizialmente. E che dunque il non detto e l'implosione possano scontare un sospetto di autoindulgente economia narrativa, in un film altrimenti esemplare per l'umana veridicità dei suoi Will e Tom.
cast:
Ben Foster, Thomasin McKenzie, Jeff Kober, Dale Dickey, Dana Millican, Alyssa Lynn, Ryan Joiner
regia:
Debra Granik
titolo originale:
Leave No Trace
distribuzione:
Adler Entertainment
durata:
109'
produzione:
Bron Studios, First Look Media, Harrison Productions
sceneggiatura:
Debra Granik, Anne Rosellini
fotografia:
Michael McDonough
scenografie:
Chad Keith
montaggio:
Jane Rizzo
costumi:
Erin Aldridge Orr
musiche:
Dickon Hinchliffe