Potrebbe essere il furgoncino di "Little Miss Sunshine" quello utilizzato dal padre di famiglia Ben per vagabondare con i propri figli verso le mete di un'America marginale che dal giallo della sognata California si sposta in un irrequieto blu.
Le strade si intersecano in quell'angolo di cinema statunitense definito indie o, semplicemente, "da Sundance", facendo riferimento al noto Festival cinematografico dello Utah che tanti natali ha donato a produzioni indipendenti che sarebbero altrimenti passate inosservate. O almeno è ciò che accadeva in passato: stilemi e canoni estetici cari a questo cinema, caricati e collaudati fin dal principio del nuovo secolo, si sono espansi a macchia d'olio , oltre le ristrettezze del basso budget, oltre le lande territoriali del fortunato Festival.
A modellare ed arricchire le modalità di racconto di un dato cinema contemporaneo sospeso tra commedia e tragedia è forse rintracciabile il contributo della serialità televisiva: distanti dalle sitcom caratterizzate da episodi autoconclusivi, la storie son cominciate a prosegue di settimana in settimana mescolando dramma e commedia con ritmi distesi e una scrittura che ammorbidisce la ruvidezza della tragedia con cadenze ritmiche da sottile commedia. Dramedy è la parola coniata per indicare questa narrativa che vorrebbe stemperare con il sorriso una lacrima appena provocata. Afflitto da una meccanicità di scrittura che combinata ad un immaginario estetico che con piccole modifiche disfa e ridipinge i mondi proposti, è ampio il ventaglio di pellicole vittime di frizzi e lazzi che sovrastano trame e sottotrame di questo cinema amato da taluni per i motivi che lo schiavizzano, odiato da altri che decantano il proprio presunto atto di smascheramento.
Ed è proprio dal mondo del piccolo schermo che proviene il Matt Ross regista di "Captain Fantastic": era l'Alby Grant di "Big Love", è il Gavin Belson di "Silicon Valley". Ed è qui al suo secondo lungometraggio da regista, ideale nuovo cantore di alternative alle frenesie del moderno universo ultratecnologico, a quel trambusto della società dei consumi che tutte le scorciatoie materialistiche offre e tutta la purezza dello spirito toglie. Ed è questo è il bigliettone da visita che "Captain Fantastic" affissa ben in evidenza sugli schermi che lo proiettono.
L'invisibile ma onnipresente moglie/madre di famiglia è l'apripista del costante viaggio di Ben e figli, tra foreste e marginali strade statunitensi. È un'elaborazione del lutto preventiva che aziona i motori di difesa prima del suicidio della donna.
La base di un percorso fisico ma soprattutto spirituale stabilisce una domanda che pervade il film intero: qual è il ruolo del genitore nell'America contemporanea? E ancora: è possibile ipotizzare alternative di vita allo spettro del consumismo destinato a fagocitare le nuove generazioni?
"Captain Fantastic" addossandosi un Io dell'evocato supereroismo produce domande, risposte e sottolineature.
Figurativamente l'errante pacchetto completo di Ben e dei sei suoi figli, con nomi unici al mondo, sembra essere uscito da un fumetto contemporaneo, ma è il descrittivismo ad estremizzare idee che vogliono farsi concetti: un'umanità che non solo veste con abiti poveri ma nemmeno conosce le scarpe Nike, non si limita a mangiare sano ma ignora l'esistenza dei cibi spazzatura, non offre un'alternativa all'educazione scolastica ma la sovrasta indottrinandosi con cataloghi di nozioni storiche, ascola Bach ed ignora il Rock, legge Dostoevskij e inorridisce davanti alla presenza di videogame. Essendo poi la combriccola una microcumunità neo-hippy gli è concesso gironzolare nuda per campeggi e rubare cibo al supermarket.
L'apice di questo assolutorio accumulo che nella sua forsennata ricerca dell'alternativa perde la leggerezza che inizialmente prometteva lo si ha in due significative sequenze: l'assurda celebrazione familiare a Noam Chomsky e la mascherata offerta in occasione del funerale. Ostentazione del gusto dell'assurdo che manca anche di un mirato utilizzo della provocazione dato che successivamente, in una fiacca parte finale incapace di equilibrare la mescolanza tra dramma e commedia , tirando le fila del discorso sembra calare la mira uscendosene con la morale del "cercate un'alternativa alla società che ci affligge, ma non esagerate".
Forse bisognerà rivalutare definitivamente "Mosquito Coast" di Peter Weir che partendo da un sunto simile pur nei suoi squilibri va in profondità del suo sguardo, non scappando nemmeno davanti alla sgradevolezza.
Viggo Mortensen, comunque, sembra credere al progetto e dona al suo personaggio fondi di verità che il film non riesce a concretizzare quasi mai.
cast:
Viggo Mortensen, Nicholas Hamilton, Shree Crooks, Samantha Isler, Annalise Basso, Kathryn Hahn, George MacKay, Frank Langella, Steve Zahn, Charlie Shotwell
regia:
Matt Ross
distribuzione:
Good Films
durata:
118'
produzione:
Electric City Entertainment, ShivHans Pictures
sceneggiatura:
Matt Ross
fotografia:
Stéphane Fontaine
scenografie:
Russell Barnes, Tania Kupczak, Susan Magestro
montaggio:
Joseph Krings
costumi:
Courtney Hoffman
musiche:
Alex Somers