We were born before the wind
Also younger than the sun
Let your soul and spirit fly into the mystic
Just like way back in the days of old
(Van Morrison - Into The Mystic)
Ogni opera si misura col tempo.
Quando scrivi rispondi ad un preciso momento
(Marco Bellocchio)
Per sua stessa ammissione, il settimo lungometraggio post duemila firmato dal Maestro piacentino, è "un film fatto per divertimento, che nasce così, per caso". Di trappole ai mezzi stampa Bellocchio ne dissemina a valanghe, basti pensare all'ultimo "
Bella addormentata" che aveva definito "tutt'altro che complesso". Proprio in quel film, tra l'altro, si denunciava l'oscena strumentalizzazione mediatica e politica a ridosso di un drammatico e (storico) evento, quello della morte di Eluana Englaro. Di televisioni in "Sangue del mio sangue" non ce ne sono, Berlusconi così come l'intera classe politica non farnetica davanti ai microfoni, il volume dei telegiornali non ammorbano le case, perché Bellocchio apre le porte (letteralmente) al diciassettesimo secolo e fa accedere lo spettaore ai tempi dell'inquisizione stregonesca ad opera della Chiesa padrona dei destini, creando un ponte sulla carta impossibile con la bramosia materialista e con il potere vampiresco dissepolto tra le macerie della classe politica. L'effetto di straniamento è allucinante, Bellocchio lavora come Brecht, ereditando la feroce astrazione
buñueliana. A dosare il
leitmotiv narrativo di "Sangue del mio sangue", una cover eterea di "Nothing Else Matters" dei
Metallica, che acuisce ancor più i complessi meccanismi di un'opera cinematografica germogliata tutt'altro per caso, nel cui testo scritto dal duo tedesco Hetfield-Ulrich si nascondono i prodromi dell'ennesimo, straripante, struggente canto di un rivoluzionario fallito che cede al desiderio (e al bisogno) di attraversare la luce e la bellezza in un viaggio di emozionante onirismo mistico, pur di uscire dal buio tragicomico del presente.
So close, no matter how far Vicino e lontano. Presente e passato. Lo scheletro di "Sangue del mio sangue" risiede nel tempo e nel suo
continuum che, come un filo invisibile, lega le peripezie dei due Federico Mai nel corso dei secoli, secondo la struttura tripartitica ABA, la più classica adottata dalle forme musicali (non a caso). Il primo è un uomo d'armi sedotto da suor Benedetta, bellezza ineffabile (una celestiale Lidiya Liberman che annulla l'espressività di
Reneè Falconetti e l'audace irriverenza di Lucia Poli in "Gostanza da Libbiano" per lasciare spazio a una silenziosa e introspettiva rassegnazione carica di pessimismo) accusata di essere impossessata dal demonio per aver indotto al suicidio il prete gemello di Federico, invaghito anch'egli dello splendore di lei. Al contrario di Picciafuoco/Castellitto ne "
L'ora di religione", Federico non ha però il coraggio e la risolutezza di opporsi ai pregiudizi e ai dogmi della Chiesa e soccombe inerme al destino della ragazza, condannata in modo atroce ad essere murata viva nelle antiche prigioni di Bobbio, in un martirio che ricorda l'amore negato e l'abbandono subito da Ida Dasler, alias Giovanna Mezzogiorno, in "
Vincere". Tutta la prima parte è costellata da plurimi riferimenti al doppio, dal fratello gemello alla coppia di zitelle, sino alle chiavi gettate nel Trebbia. Tema del doppio che era già il fulcro de "Gli occhi, la bocca", riesumazione adattata agli anni ottanta dell'esordio "
I pugni in tasca".
Il secondo Federico che Bellocchio presenta allo spettatore capovolge non solo il livello temporale ma anche il registro della pellicola, che si converte da dramma in costume a grottesca farsa, sottolineando con sprezzo lo stato confusionale (e fraudolento) della società odierna.
Divenuto dopo una manciata di secoli ispettore ministeriale, il nuovo Federico fa ritorno alle mura del convento bobbiese con l'intento di vendere lo sconfinato immobile a un filantropo russo, indeciso se restaurarlo a ricovero per tossicodipendenti o a lussuosa stazione termale (!). Il vero protagonista di questo secondo trittico è però "il conte", ultimo vampiro (o parassita, se preferite) che dimora nella prigione oramai abbandonata e diroccata. È l'inizio di un mondo altrettanto onirico ma né mistico, né solenne come il precedente, imperversato da truffatori, massoni, poteri forti e invisibili di democristiana memoria che raccordano la figura del conte con il fallimento delle istituzioni e con il ridicolo e fagocitante consumismo del presente (il pazzo e la moglie del conte che ignari della natura del finto ispettore, rivendicano invalidità dall'INPS, alimenti e pensioni di reversibilità).
Il meraviglioso, ermetico, epilogo si rituffa a ritroso nei secoli, instaurando un'inevitabile anello di congiunzione con il tempo corrente, rispondendo infine alla domanda di Bellocchio: quanto presente è il passato? In entrambi i livelli si scorgono Bellezza e bassezza, sia nel clima controriformista e oscurantista della Chiesa inquisitoria che annienta il libero arbitrio, sia in quello del potere politico odierno, clientelare e vampiresco che vive nelle stesse prigioni dove quattro secoli fa regnava la Chiesa. Ed eccolo il bisogno di Bellocchio, quel sogno (che non può non far ricordare l'epilogo di "
Buongiorno, notte") edenico come il nudo della Liberman. Una bellezza che cammina sopra i cadaveri di entrambi, un fantasma del passato che allegoricamente è traslato nel presente nella sublime corsa di due giovani innamorati. Ma Bellocchio non è mai stato un inguaribile ottimista e il sogno si frantuma, improvvisamente, per lasciare spazio ai rumori del presente, quelli delle sirene della finanza (un'immagine sonora che fa tornare alla mente il frastuono dei titoli di testa della "Prova d'orchestra"
felliniana).
Life is ours, we live it our way
I più grandi cineasti lo sanno, il cinema è un mo(n)do per esorcizzare i fantasmi e le ossessioni del proprio vissuto. Il cinema di Bellocchio è di un pleonasmo essenziale, ogni volta. Le oppressioni delle istituzioni familiari e religiose, i canti di rivolta di influenza marxista, sono elementi racchiusi in cinquant'anni di carriera, così come i connubi emotivi al confine tra richiamo e repulsione, amore e odio, desiderio e tormento. Il rimando con "
I pugni in tasca" a mezzo secolo dall'uscita in sala è lampante, non solo per quanto concerne lo spazio chiuso (il salone è lo stesso del film del 65 ed è abitato dallo "stesso" gatto) e il disagio familiare ma per lo specchio dei personaggi tratteggiati: la Bobbio del presente non è altro che figlia di Augusto, il cuore borghese progressista e ambizioso che ha dato vita a questa nuova società sul finire degli anni sessanta, mentre il pazzo interpretato da Filippo Timi incarna il prolungamento delle nevrosi emozionali e patologiche di Sandro. Come a dire, la schizofrenia sociale è rimasta intatta col passare dei decenni. Più vicino ai giorni nostri, "
Sorelle Mai" ne condivide l'aspetto puramente autobiografico e persino gli sviluppi metatestuali al punto tale che in una sequenza il Federico del passato rivive gli attimi in cui l'amico di famiglia Gianni si immerge tra le acque del Trebbia per dare il suo "addio al mondo e ai ricordi del passato". Episodio che suscita la comprensibile commozione del giovane soldato.
Ma il maggior debito che "Sangue del mio sangue" deve alla gloriosa filmografia bellocchiana dimora nella pellicola del 1972, "Nel nome del padre", non a caso scelta dal cineasta piacentino a capeggiare la retrospettiva veneziana nell'anno del suo Leone d'Oro alla carriera, nel 2011. L'allegoria del collegio religioso visto come un carcere (e manicomio), torna in quest'ultimo lavoro con la violenta e dozzinale coercizione dell'istituzione clericale. Ma se più di quarant'anni fa Bellocchio dichiarava la sua sconfitta nel non saper essere in grado di ribellarsi al suo passato, in "Sangue del mio sangue" riesce nel togliersi questo macigno dalle spalle. Il rimando a un cinema visionario (le sequenze della recita e della profanazione del cadavere) riemerge con coraggiosa coerenza e impressionante lucidità in questo trasognante lirismo d'autore. Come sosteneva Alberto Moravia, Bellocchio parla di cose che conosce benissimo e ne parla con una consapevolezza critico-storica rara tra i nostri registi. Era il 1973 quando sosteneva ciò.
Open mind for a different view
Dopo aver riunito la sua "famiglia lavorativa" nella sua Bobbio (si pensi a ogni persona del cast artistico e tecnico. Se si escludono le parentele, ognuno ha collaborato almeno una volta col regista e le due parti si conoscono a meraviglia, con meccanismi oliati e quasi perfetti), Bellocchio realizza il suo film più coraggioso tra quelli realizzati nell'ultimo decennio, spiazzando una larga fetta di pubblico ritrovatasi persa e inebetita di fronte alla fervida immaginazione partorita dalla pellicola, lui che il più delle volte è stato un osservatore critico ben aderente alla realtà. Una temerarietà stilistica che non risente delle imperfezioni, dei pleonasmi e delle facili allusioni in cui il film raramente inciampa (il dialogo tra Herlitzka e Bertorelli nello studio dentistico), dove la luce di Daniele Ciprì trasforma le inquadrature degli interni del seicento in un dipinto di Rembrandt, dove i chiari riferimenti a Gogol ("L'ispettore generale") e alla Monaca di Monza non sminuiscono l'originalità del soggetto.
L'audacia di "Sangue del mio sangue" è quella di addentrarsi in un'Italia di paese "che la modernità e la globalizzazione hanno ormai cancellato", senza tirarsi indietro dai legami che lo incatenano alla sua amata Bobbio, nella quale continua a insegnare ai suoi studenti del laboratorio di cinema a dipingere con la macchina da presa. Il destino del film è quello di dividere e perplimere, come sta avvenendo alla 72a Mostra del Cinema di Venezia, dove è in concorso per il Leone d'Oro (stessa sorte che ricevette tre anni fa "
Bella addormentata") ma checché se ne dica, l'ultimo lavoro di Marco Bellocchio è l'ulteriore conferma di un cinema così identitario, così introspettivo e al tempo stesso collettivo che nessun altro cineasta italiano oggi è in grado di saper realizzare.
Forever trust in who we are
No, nothing else matters
11/09/2015