Una donna di ventisei anni uccide la figlia di quindici mesi.
A fronte di questo gesto incomprensibile Rama (Kayije Kagame), scrittrice e professoressa di lettere, accantona le lezioni su Hiroshima mon amour di Marguerite Duras e parte per Saint Omer, dove si tiene il processo a Laurence Coly (Guslagie Malanga), la novella Medea. Nel dibattimento emerge il progressivo distacco di Laurence dalla famiglia d'origine, in Senegal, il sogno di cercare fortuna in Francia, la relazione tossica con un uomo molto più anziano, il fallimento accademico, l'indigenza, la gravidanza indesiderata, ma non chiarisce nulla del gesto oscuro, mitologico, che compie abbandonando la figlia sulla battigia in una notte di luna durante la bassa marea.
Alice Diop, affermata documentarista al suo primo feature film, ricostruisce il processo con rigore forense attraverso una messa in quadro statica e lunghi, immobili piani sequenza che immergono lo spettatore nel presente apolide e anodino del tempo quotidiano. I personaggi vi compaiono come figure segnaletiche, in piani medi tagliati alla cintola. La mezza figura, così inconsueta rispetto al piano americano o al mezzobusto, decentra i personaggi nelle scenografie, denunciando l'impossibilità di ricondurli a una centralità di ordine visuale, e dunque psicologico e morale.
Il desiderio e la simultanea impossibilità di comprendere misurano la cifra che separa Rama e Laurence, una distanza che deflagra in potenti dialettiche di campo/controcampo dove i volti assumono un'espressività dreyeriana, mistica. Il montaggio di Amrita David lavora per brusche giustapposizioni che in una successione graduale ma inesorabile avvicinano i profili di Rama e Laurence. Orrore ed empatia si sovrappongono, fondendosi al cuore dell'immagine. E in questo cuore di tenebra si legge l'eterno conflitto tra cronaca e mito, tra civiltà e barbarie, tra giurisprudenza e magia, laddove la razionalità occidentale (che parla attraverso il pubblico ministero) si sforza di definire e di comprendere il pensiero magico espresso dalla madre di Laurence, che dice: "il vuoto che ha dentro, le è stato trasmesso."
L'ipotesi non sembra così lontana dalla realtà, dato che (arringa la difesa) durante la gravidanza madre e feto si scambiano una parte di cellule che diventano ibride, note come "cellule chimeriche". La chimera è un mostro assemblato da varie parti, e in un certo senso "lo siamo anche noi donne, noi madri: siamo mostri, ma terribilmente umani". Come "Alien", anche "Saint Omer" adotta la prospettiva di una donna per esprimere l'angosciosa ambivalenza che circonda la maternità, il mistero che genera la vita dal nulla, che sfida il vuoto del tempo riempiendolo con le generazioni.
Insomma, Diop si allontana dal dramma legale per ispirare una riflessione, in un solco dichiaratamente pasoliniano, sul rapporto tra progresso e mistica, tra lato umano e ferino, laddove "per una cultura post-olocausto in particolare, la domanda se sia possibile distinguere civiltà e barbarie sembra particolarmente urgente" (M. Kilgour in K. Guest, Eating Their Words. Cannibalism and the Boundaries of Cultural Identity, SUNY 2001). Rama, dunque la scrittura (che avvenga tramite lettere o tramite immagini), si pone come ideale terzo termine capace, se non di spiegare, almeno di mediare tra le parti. Come una bussola in un deserto di valori e di senso, lo sguardo di Rama segnala il disorientamento di chi incarna l'alterità, colorando il film con l'ennesimo filtro, quello di una critica post-coloniale (ma in che modo uno stato che tuttora emette in quattordici paesi africani un franco controllato dall'erario può dirsi pienamente post-coloniale?).
Il concetto di colore giunge a proposito, perché a palesare lo spaesamento e l'alienazione concorre un vocabolario cromatico. Le vesti africane colorate di giallo e indaco si stagliano con la forza di un evento contro le tiepide gradazioni marroni e grigie degli interni. Il difficile conflitto tra alterità e integrazione culmina nella scena in cui Rama (in jeans e sneakers) siede accanto alla madre (in abiti tradizionali) che piange davanti a uno specchio. Come in "Zombie Child" di Bonello, come nel sorprendente "Pacifiction" di Serra, il passato coloniale della Francia torna a bussare alle porte della modernità come un ospite inquietante.
E il cinema transalpino, abitualmente Paris-centrico, realizza in "Saint Omer" una periferizzazione dell'immagine, muovendosi lungo una frontiera ondosa in cui convergono dettagli autobiografici e mitologemi universali. Tutto è sfumato, stratificato, anche il razzismo sottaciuto di professori universitari che ritengono gli studenti africani incapaci di capire Wittgenstein perché troppo lontano dalla cultura di origine. Alice Diop invece Wittgenstein dimostra di averlo capito alla grande: "Tutto ciò che si può dire, si può dire chiaramente", eppure "ciò che non si può esprimere tuttavia esiste. Esso si mostra: è il Mistico". E il Mistico in "Saint Omer" si mostra benissimo.
cast:
Kayije Kagame, Guslagie Malanga, Valérie Dréville, Aurélia Petit, Xavier Maly, Salimata Kamate, Robert Canterella
regia:
Alice Diop
titolo originale:
Saint Omer
distribuzione:
Minerva Pictures, Medusa Film
durata:
122'
produzione:
Srab Film, Minerva Pictures
sceneggiatura:
Alice Diop, Amrita David, Marie NDiaye
fotografia:
Claire Mathon
scenografie:
Anna Le Mouël
montaggio:
Amrita David
costumi:
Annie Melza Triburce
musiche:
Thibault Deboaisne