Il ritorno al cinema di Alejandro Amenábar è un ritorno alle origini: al genere del thriller, che l'aveva reso celebre sin da giovane con "Tesis", con "Apri gli occhi" e soprattutto con il capolavoro divenuto cult: "The Others".
Dopo una breve deviazione dal mondo della suspense, valsagli un Oscar con "Mare dentro", e dopo il mezzo passo falso di "Agorà", ecco ora "Regression".
A sei anni di distanza dal suo ultimo lavoro registico, il regista spagnolo si reimmerge nella sua comfort zone, ovvero in quella linea di registro thriller-horror che conta tra i suoi avi film come "L'esorcista" e "Rosemary's Baby" e che aveva virato, grazie a registi come lo stesso Amenábar e come M. Night Shyamalan (ora al cinema con "The Visit"), verso il thriller-psicologico, in film come "Il sesto senso" e il già citato "The Others".
In questa pellicola i toni orrorifici sono però limitati. Ciò che vuole generare tensione nello spettatore (e che diviene il vero soggetto del film) è la mente umana, i suoi complessi labirinti, la sua fallacia, la sua limitatezza.
La fobia satanista diffusasi nell'America degli anni Novanta, viene qui assunta a soggetto per raccontare la storia di Angela (Emma Watson), una ragazzina che accusa il padre di violenze sessuali avvenute durante la sua infanzia, nell'ambito di una messa nera.
Sarà al detective Bruce Kenner (Ethan Hawke) il compito di sbrogliare la matassa, coadiuvato nelle indagini dal professor Raines (David Thewlis): uno psicologo esperto nei meccanismi della rimozione e nelle pratiche regressive.
Amenábar gioca con lo spettatore rendendogli evidente l'inettitudine della ragione, offrendogli di tanto in tanto indizi che riuscirà a leggere solo a caso risolto e rendendolo in ciò simile al protagonista, imprigionato nel labirinto dei meccanismi psichici e incapace di constatare l'evidenza di ciò che gli si pone innanzi.
L'apparenza, il trucco, gli inganni che il cervello opera su se stesso: sono queste le strutture su cui il film gioca. Ma al di là di tutto, ciò che maggiormente viene trasmesso allo spettatore e che fa da sfondo alle intere vicende è l'idea della necessità umana di trovare un capro espiatorio da demonizzare.
Sotto diverse fattezze, la ricerca di un timore comune, che rappresenti per tutti il Male, attraversa tutta la storia umana: lo si è fatto con il satanismo trent'anni fa, lo si sta facendo con la fobia islamica negli ultimi vent'anni.
A ben vedere l'idea di un comune nemico a fondazione della comunità si ritrova già nel pensiero giusnaturalista moderno, quando Samuel Pufendorf scrive nel suo "De Iure Naturae et Gentium" che: "Siffatte unioni di molti uomini non dureranno a lungo, se non saranno fondate sopra un qualche timore comune". E se la pellicola che meglio ha espresso questo concetto è sicuramente "The Village", anche in questo "Regression" il ruolo della Chiesa, impersonata dal reverendo Murray, pare edificare sulla paura il suo potere.
Infine, questo male assoluto si scopre non essere altro che l'esternazione di un male interiore, di una rabbia repressa: come fa notare il professor Raines l'uomo commette delle atrocità con le quali poi non è in grado di convivere. Per questo le rimuove, le proietta all'esterno, le fa vivere come Altro da sé e in ciò gli dà un corpo e una realtà.
Se dunque nel film le idee ci sono, non mancano i lati negativi: il finale in primis, nel suo essere frettoloso e semplicistico, non può non suscitare dei dubbi nello spettatore, soprattutto in chi, conoscendo la bravura di Amenábar, si aspetta qualcosa dalla sua abilità (dimostrata in altri lavori) di ribaltare con maestria i punti di vista.
Se poi la recitazione di Ethan Hawke è positiva e convincente, lo stesso non si può dire degli altri due personaggi: Emma Watson non risulta una scelta attoriale credibile e l'eleganza e il fascino dell'attrice non rende verosimile la provincialità rurale del personaggio. Il personaggio del professor Raines è invece sviluppato in maniera troppo carente, soprattutto vista la sua centralità nello svolgersi delle vicende. Alla fine della storia non lo conosciamo ancora bene e se all'inizio sembrava avere le fattezze del vero co-protagonista, il suo ruolo viene poco a poco abbandonato fino a diventare marginale.
Il difetto più grave però è l'incapacità della pellicola di creare tensione nello spettatore il quale, eccezion fatta per poche scene, non viene coinvolto emotivamente negli eventi.
La bravura del regista non viene manifestata nella creazione di una suspense duratura, come un film di questo genere richiederebbe, ma in una regia molto solida e in alcune trovate interessanti. Va citata a titolo d'esempio la ripetizione del piano-sequenza iniziale verso la fine del film, quando il protagonista è ormai logorato dalle ricerche e la logica sta cedendo il posto alla credenza irrazionale: il suo punto di vista viene allora presentato (attraverso una soggettiva dell'entrata nella stazione di polizia) uguale a quello iniziale del padre di Angela, ovvero di un uomo profondamente turbato e confuso, incapace di Ragione.
Il film oscilla insomma tra pregi e difetti, non riuscendo a convincere totalmente, ma regalando in ogni caso un buon thriller di intrattenimento.
Così come il ritorno di Shyamalan dunque, anche il ritorno di Amenábar è convincente solo a metà: un lavoro apprezzabile, ma distante dai capolavori della gioventù.
cast:
Emma Watson, Ethan Hawke, David Thewlis, Devon Bostick, Aaron Ashmore, Dale Dickey, David Dencik, Lothaire Bluteau, Peter MacNeill
regia:
Alejandro Amenabar
distribuzione:
Lucky Red
durata:
106'
produzione:
Mod Producciones, First Generation Films, FilmNation Entertainment, Himenóptero, Telefonica Studios
sceneggiatura:
Alejandro Amenábar
fotografia:
Daniel Aranyó
musiche:
Roque Baños