La resurrezione del genere peplum, morto e sepolto da decenni, è passata in anni recenti attraverso i muscoli di titanici spartani, gonfiati da effetti digitali ed elevati a eroi da ragazzini sedotti da frasi fatte e muscoli che sembrano sempre sul punto di esplodere.
Abolendo l'onda modaiola, lo spagnolo Alejandro Amenábar vuole realizzare un film di un didatticismo alla Youssef Chahine (a sua volta memore della lezione del Rossellini televisivo), alla maniera di "Ben Hur". Ma il regista spagnolo vuole andare al di là: pensare in grande attraverso una tessitura capace di creare automaticamente paralleli tra il passato e il presente: quello storico-politico e quello religioso, che si presta ad accese polemiche: tanto più alla luce di recenti scandali clericali. Certo è che il sunto è chiaro e diretto, benché, purtroppo, privo di sfumature e dettagli: la cristianità ammazza la civiltà, la libertà di espressione e la cultura. L'impero romano come quello statunitense contemporaneo (anche se - dice il regista - non dovrebbe esserci un altro Medioevo: troppo facile attaccare in toto un'intera epoca storica) e il concetto stesso di cultura e progresso scientifico affidato a una figura femminile.
Amenábar non si pone limiti e tra dolly che catturano la civiltà dall'alto ed effetti digitali che, partendo dal cosmo, si proiettono a velocità della luce fino ad Alessandria d'Egitto, fa intendere ambizioni alte che vogliono superare la mera rappresentazione di una realtà storica. Onore a chi osa e pensa in grande, ma il tentativo può dirsi fallimentare e didascalico su tutta la linea.
A dispetto dell'altro budget (73 milioni di dollari: cifra rara per una produzione europea), la ricostruzione storica appare schematica nelle scenografie (a tratti riconducibili a quelle che vediamo sulla Rai in speciali come Quark e Voyager) e rozza nella caratterizzazione dei personaggi secondari. La mancanza di leggerezza e saggezza (ecco una differenza non da poco con il sopracitato Chahine, che tra l'altro conosceva a memoria il senso della misura) conducono i momenti riflessivi in un meditabondo clima di didatticismo (tra l'altro appena abbozzato, dunque pretestuoso) che finisce francamente con l'annoiare.
Le azioni dei cristiani contro i pagani, dall'attacco alla Biblioteca alla lapidazione finale, sono schegge che partono senza progressioni drammaturgiche e, come se non bastasse, Amenábar sembra credere poco anche al triangolo amoroso, suggerendo ipotesi passionali, ma non avendo il coraggio di premere il pedale sul versante melò.
Si accenna alle intuizioni che dipingono Ipazia - matematica, astronoma e filosofa greca - come un'anticipatrice di Galileo, tra l'altro non evidenziando mai dubbi o contraddizioni. Un azzardo non da poco, dato che non si conservano reali testimonianze dei suoi lavori. In questo modo il regista agisce secondo l'istinto polemico, riconducendo colpe e santificazioni a sensi unici e, presumibilmente, scontentando in un colpo solo i ragazzini amanti dell'estetica alla "300", gli adulti ben disposti a una lezione basata sulla dialettica e i nostalgici di "Ben Hur".
cast:
Rachel Weisz, Rupert Evans, Max Minghella, Ashraf Barhoum, Oscar Isaac, Richard Durden, Sami Samir, Michael Lonsdale
regia:
Alejandro Amenabar
titolo originale:
Ágora
distribuzione:
Mikado
durata:
126'
produzione:
Mod Producciones
sceneggiatura:
Alejandro Amenábar, Mateo Gil
fotografia:
Xavi Gimenez
scenografie:
Guy Dyas, Larry Dias
montaggio:
Nacho Ruiz Capillas
costumi:
Gabriella Pescucci
musiche:
Dario Marianelli