Una schiena, uno stetoscopio, una mano. Già nei ravvicinati dettagli della prima inquadratura è racchiuso il cuore dell'intreccio narrativo dell'ultimo, come al solito stringato ed essenziale, lavoro dei fratelli Dardenne, presentato in concorso al sessantanovesimo Festival di Cannes.
In uno studio medico, la giovane dottoressa Jenny "ascolta" ogni giorno i suoi pazienti. Attraverso lo stetoscopio diagnostica bronchiti, la sua mano esperta interviene a quietare crisi epilettiche e spasmi dovuti a stress, a curare ustioni. Ma il medico generico non può risolvere tutto. Perché è un'umanità due volte malata quella racchiusa in "La Fille inconnue". In una Liegi asettica e intorpidita, meta predestinata del cinema
dardenniano, le auto e le moto sfrecciano senza sosta (addirittura lungo l'intero arco temporale dei titoli di coda), la vita si sussegue per accumulo, incurante di quello che succede intorno. Gli occhi dei due cineasti belgi si posano su Jenny perché il suo lavoro le permette, anzi ci permette, di diventare testimoni oculari di un vissuto quotidiano colmo di egoismo, ipocrisia, solitudine, abiezione. Un ambiente nel quale non può che attecchire la metastasi dell'indifferenza di fronte ai drammi dell'immigrazione e della prostituzione minorile. Una "
Cecità"
saramaghiana che trova spazio innumerevoli volte nel film, anche in sequenze apparentemente innocue, come quando un ragazzo cerca di intimidIre e aggredire la protagonista e infine le lancia addosso proprio il suo stetoscopio. Metafora lampante di un tessuto sociale che si rifiuta di voler anche solo "ascoltare" le nefande dinamiche circostanti.
Jacques Derrida sosteneva che "laddove vi è decisione e responsabilità vi è sempre un soggetto finito e mortale". La responsabilità è il tema intorno alla quale si sviluppa l'esile sviluppo narrativo, acuito certo dall'esercizio professionale della ragazza, ma inteso primariamente come slancio vitale umano, non solo da una prospettiva "fisica" quanto morale. Jenny è una donna letteralmente posseduta dalla morale (ma i Dardenne la tengono lontana da facili e ampollosi moralismi). Il corpo senza vita di una ragazza immigrata senza nome, legata a una sua negligenza ai limiti dell'imputabilità, la induce a dover a tutti i costi lottare per arrivare alla verità, per dare un nome e una degna sepoltura a un essere umano ignorato tanto in vita quanto da cadavere. Attraverso il pedinamento incessante dei Dardenne, scopriamo il radicale cambiamento della ragazza che, abile nel non farsi sopraffare dalle emozioni sino a quel momento, viene sconvolta dal fatto (ironia della sorte dopo aver rimproverato il suo stagista per il medesimo motivo) e crolla di fronte alla minaccia del senso di colpa. È l'inizio di una lenta indagine al limite del poliziesco per risalire all'identità della povera vittima, un'indagine prolungata, affannosa, con poche vie di luce, che sembra apparentemente compromettere la sanità mentale della donna ma che nel finale si tramuterà in un solenne inno alla ricerca di una civiltà e di un'identità individuale andate perdute, un elogio alla devozione dei propri doveri morali, quella qualità che Derrida attribuisce esclusivamente (e fieramente) all'Uomo.
I Dardenne continuano a focalizzare l'attenzione sulla donna per dibattere le loro tematiche sociali. Ne evidenziano l'evoluzione, la maturazione e lo spirito combattivo volto al "giusto". In tal senso Jenny ricorda certo l'audacia e l'intraprendenza di Rosetta ma è la forza d'animo a dividerle. Il personaggio interpretato dalla "
combattente" Adele Haènel (molto somigliante per spirito recitativo alla Cotillard di "
Deux jours, une nuit"), rappresenta la figura femminile
dardenniana dotata della più alta funzione salvifica, ancor più di Samantha/Cécile de France in "
Il ragazzo con la bicicletta" e di Sandra/Marion Cotillard in "
Due giorni, una notte", un'eroina capace di "ascoltare" la voce della coscienza, intimandola a fermarsi, a interrogarsi, a reagire. Fino al raggiungimento della verità.
L'estenuante e macchinosa ricerca del nome che elementarmente tiene in piedi l'esile intreccio non è manierismo autoriale né tantomeno povertà di idee (che paradossalmente abbondano per i temi trattati) bensì l'ennesima rappresentazione di un cinema crudo e volto a un iperrealismo sociale che procede per accumulo, nulla a che vedere con la
detective story o col rimando noir, che rimangono solo una suggestione. I Dardenne, infatti, si tengono alla larga dai canoni del thriller, anche se non smettono un secondo di pedinare la loro protagonista. Penalizzato magari da ristrette casualità e da lacune di sceneggiatura (le peripezie attorno alla famiglia di Brian, la figura non del tutto tratteggiata dello stagista Julien) e da una minore potenza espressiva rispetto al capolavoro precedente, "La Fille inconnue" rimane comunque l'ennesimo, necessario tassello di due tra i più grandi cineasti europei capaci di sciorinare impegno civile e politico in chiave cinematografica con notevole semplicità e profondità.
30/10/2016