Dopo un
incipit che riecheggia quelli dei due capitoli precedenti quanto a tono e stilemi adottati e che completa l'inserimento della saga in un mondo e un tempo storico completamente altri rispetto al(i) nostro(i), il terzo film della saga verbinskiana inizia la sua narrazione
ex abrupto con l'avventurosa e magistralmente diretta sequenza di Singapore, la quale può facilmente venire assunta come emblema dell'intera trilogia per via della commistione tra azione buffonesca e accorto utilizzo degli ambienti meticolosamente ricostruiti. Poi il racconto si sposta in altre coordinate e contesti, rimbalzando da una parte all'altra del globo e da una fazione all'altra, trasformando il film in un flusso continuo di avvenimenti e scontri, allo stesso modo con le spade e con la dialettica.
Ancora una volta il mare può divenire un'efficace immagine per rappresentare i film della saga di "Pirati dei Caraibi" e laddove il
predecessore era agevolmente esemplificabile dalla marea stavolta tocca al ciclone (guarda caso presente nel climax dello scontro finale), i cui molteplici movimenti rotatori in più direzioni collimano fra loro nel punto di minore pressione. Allo stesso modo in "Ai confini del mondo" le numerose linee narrative dei vari personaggi si sdoppiano e si riallineano con discutibile soluzione di continuità, grazie ad una sceneggiatura il cui disprezzo della verosimiglianza e dell'equilibrio è ormai programmatico e perseguito, culminando nei più di 30 minuti d'azione della colossale battaglia finale tra la Perla Nera, l'Olandese Volante e l'ammiraglia regia Endeavour (e difatti anticipata dal momento di maggiore distensione).
Pur accomunato a "La maledizione del forziere fantasma" dalla sempre più incontrollata
grandeur e da altre molteplici discutibilità il qui presente film si eleva in virtù dell'estremizzazione di molti di quegli stessi tratti che permette ad "At World's End" di superare la staticità del predecessore e di esserne quindi un vero e proprio passaggio dalla
potenza all'
atto. Se difatti la seconda pellicola della trilogia pareva continuamente castrata dal suo ruolo introduttivo e dalla scarsità di avvenimenti rilevanti, il seguito sfrutta il medesimo mondo antistorico e assolutamente fantastico creato da quella (più che dal ben differente
primo capitolo) per dare via ad un'esplorazione di paesi, città, mitologie e rapporti in cui la regia di Verbinski può sbizzarrirsi e mettere in scena alcune delle migliori e più articolate sequenze d'azione di un blockbuster contemporaneo, giovandosi dell'enorme contributo di tutto il cast tecnico.
Ovviamente la settima pellicola del regista americano continua a mostrare sostanziose debolezze per quanto riguarda lo
script, incapace di approfondire i personaggi il minimo per sostanziare la tragicità melodrammatica chiaramente ricercata da Verbinski, ad eccezione forse dell'ambiguo antagonista Davy Jones, sicuramente più affascinante dello stereotipato Lord Beckett. Non si può però tacere al riguardo sui comunque considerevoli progressi rispetto a "Dead Man's Chest" che permettono al cineasta e ai due soliti sceneggiatori Elliot&Rossio di imbastire una continua serie di echi e raddoppiamenti di ruoli e tematiche nella forma di padri perduti e padri ritrovati,
romance tragiche e
romance a lieto fine e così via, con gli immancabili tradimenti multipli (ed in effetti anche lo Sparrow di Depp si raddoppia, anzi quadruplica, ma in questo caso probabilmente predominano pure ragioni di marketing). Non sarebbe così assurdo quindi leggere l'intera saga come una parabola di maturazione e acquisizione delle proprie responsabilità da parte di tutti i protagonisti.
Ma se vi è un discorso al cuore del terzo "Pirati dei Caraibi" è quello esplicitato fin dal sottotitolo. Dietro la CGI, i duelli, la mattanza di soldati (quasi senza una goccio di sangue, ovviamente) e l'umorismo spicciolo e l'ego dell'istrionico personaggio di Johnny Depp difatti si cela la storia della fine di un mondo (tema onnipresente nella poetica di Gore Verbinski) che si rivela anche un più riuscito omaggio ad un tipo di cinema d'avventure la cui fine era stata sancita già con "La maledizione della prima luna" e di cui "At World's End" è la definitiva prova d'impossibilità di produzione nel panorama attuale. Non è casuale che da queste stesse premesse riparta, dopo il mediocre e dimenticabile
"Oltre i confini del mare", il quinto, venturo, capitolo della saga.