La semi-soggettiva di un'automobile che con prudenza accompagna i protagonisti alla loro abitazione apre la scena e conduce lo spettatore nell'algido luogo in cui di lì a poco inizierà il gioco al massacro.
Tale piano-sequenza iniziale è l'unica inquadratura in esterna prima dell'inizio di un dramma da camera in cui l'evolvere della tensione si compirà nella direzione della memoria: non tanto in un climax di eventi drammatici sfociante nel crimine (inteso quindi come spannung e come punto d'arrivo della narrazione), ma nel riavvolgimento dei ricordi che finisce per riesumare un crimine già compiuto, un crimine già intimamente proprio dell'essenza della coppia borghese e che è l'essenza criminale della coppia stessa. È la tesi di Elia (Sergio Castellitto): quella secondo cui il matrimonio non è che un patto criminale con il quale le pulsioni di violenza centripete dell'uomo e della donna vengono esteriorizzate e dirette alla società anziché al singolo, ma che rimangono come un sottosuolo vivo e pronto a riemergere una volta venuta meno la complicità iniziale.
All'interno di un freddo e inospitale appartamento in cui la mdp striscia come in un labirinto, sostando di tanto in tanto in piani la cui geometria è studiata con una perizia dai tratti kubrickiani (l'estetica del maestro newyorkese è stata presumibilmente oggetto di studio da parte di Infascelli, che di
Kubrick si è indirettamente occupato nel suo ultimo documentario "
S is for Stanley"), si attua la serrata battaglia dei due protagonisti: lui giallista di successo, lei fotografa a tempo perso. Dopo un non ben specificato incidente Elia pare aver perso qualsiasi ricordo della sua vita privata: starà alla moglie il compito di ricordargli (e di ricordarsi) i diversi momenti della relazione, scoprendo in tal modo tutte le ferite mai rimarginate, tutti i tradimenti, le invidie, i dolori e le sgarberie della coppia, fino ad arrivare allo svelamento del crimine vero e proprio, folle punta di diamante di un amore malato e oscuro.
Non è una tematica nuova nel cinema contemporaneo quella dell'esposizione del viscidume borghese se già stando all'interno del genere del dramma da camera gli esempi da citare sono cospicui: dalle commedie come "
Cena tra amici" e il remake italiano "
Il nome del figlio", al "
Carnage" di Polanski, per arrivare all'inspiegabilmente poco considerato "
Nella casa" di François Ozon. Ed è forse proprio a quest'ultimo e al cinema francese che l'autore si ispira per confezionare le sue atmosfere, che hanno poco a che fare con un'italianità la quale sicuramente avrebbe preferito i toni ilari della commedia, come dimostra il recente "
Perfetti Sconosciuti", anch'esso avvicinabile in quanto a tematiche a questo "Piccoli crimini coniugali"; o forse è proprio il soggetto da cui il film è tratto (l'omonimo romanzo di Eric-Emmanuel Schmitt) a contenere già in sé quest'aria d'oltralpe che si respira tra una scena e l'altra.
Ma il difetto principale dell'opera sta probabilmente proprio nella troppa fedeltà al testo originale, nonché in un'eccessiva letterarietà, in cui il cinema viene fondamentalmente sacrificato al teatro. Seppure infatti la regia non si nasconda mai in riprese neutrali e distaccate, intervenendo anzi nell'aumentare la cinematograficità grazie a una messa in scena estetizzante e a inquadrature filmate con maestria (in cui è bene avvertibile l'istanza narrante) è tuttavia la recitazione dei due protagonisti a non rivelarsi adatta al contesto della Settima Arte benché (e proprio in quanto) perfetta da un punto di vista attoriale. La drammaturgia forzata di Castellitto e della Buy sacrifica ogni spontaneità, risultando alla fine straniante per lo spettatore, il quale non riesce mai a immedesimarsi fino in fondo nell'azione, ma è costretto a osservare il suo svolgersi come osserverebbe da uno spalto il susseguirsi degli atti della tragedia. La stessa finezza letterale dei dialoghi manca inoltre di prosaicità ed è poco credibile.
La trappola in cui dunque Infascelli cade è quella della "terribile abitudine del teatro"
[1], dove l'arte cinematografica non sa emanciparsi dall'essere una ri-presa del palcoscenico, in cui esso non sa ricavarsi una materia sua propria, in cui gli attori, proprio in quanto perfetti attori, non sanno essere "modelli", e in cui i diversi elementi, pur "senza mancare di naturalezza, mancano di natura"
[2].
Note
[1] Robert Bresson - "Note sul cinematografo"
[2] Ibid. 08/04/2017