A distanza di tre anni un altro horror hongkonghese debutta in anteprima mondiale al Far East Film Festival, adottando un simile approccio che punta trascendere il genere, pur in modalità molto diverse, e che finisce per proporre una pellicola di grande fascino visivo al netto di eventuali ingenuità narrative. I punti di contatto fra "Peg O’ My Heart", ultima sortita dietro la macchina da presa del prolifico attore di Hong Kong Nick Cheung, e l’ottimo "Coffin Homes" di Fruit Chan, presentato in chiusura al FEFF 2021, non finiscono qui, trattandosi di due pellicole che rappresentano efficacemente vari aspetti del cinema di genere hongkonghese, ma gli esiti possono considerarsi comunque molto diversi. Se difatti l’eccentrica horror comedy di Fruit Chan incarna perfettamente l’approccio eccentrico del cineasta al cinema di genere, soprattutto di un genere storico nell’industria di Hong Kong come l’horror, e finisce per produrre una pellicola tanto squilibrata quanto sorprendente nella riuscita delle singole componenti, il film di Cheung, suo terzo horror su quattro regie, finisce per rimanere vittima delle sue peculiarità strutturali e narrativi.
A primo acchito "Peg O’ My Heart" pare difatti una delle visioni più affascinanti e intriganti dell’ultima edizione della kermesse udinese, un horror senza elementi sovrannaturali (quasi) che sfrutta l’inventiva del suo regista nel concepire e dirigere una lunga serie di quadri surreali per scavare nella profondità della psiche dei suoi personaggi, rendendo le loro contrastate attività oniriche con lunghe sequenze che alternano cliché horror a fantasmagorie da cinema surrealista. Uscendo fuori dal cliché del genere dell’incubo come prefigurazione dell’orrore (e del jump scare) destinato a capitare presto ai protagonisti, Cheung fa della dimensione onirica un patchwork di diversi codici visivi e materiali filmici, la cui cripticità e stratificazione rende con efficacia la complessità dell’attività del sogno. Questo è l’unico reame in cui l’horror esiste realmente, in cui vi è spazio per elementi sovrannaturali che così si fanno ancora più chiaramente immagini dei traumi che si agitano nell’interiorità dei protagonisti, l’eterodosso psichiatra Man e l’insonne taxista dal passato oscuro Choi San-Keung. Non che manchino jump scare o raffigurazioni degli spettri del passato che si rifanno a un immaginario horror ormai saturo ma questi appaiono come strumenti per rendere visibili (in forme non a caso continuamente cangianti) ed esperibili per chi guarda i disagi psichici sofferti dal duo oppositivo di protagonisti.
L’orrore, nell’ultimo film di Nick Cheung, si esprime solo e soltanto nell’inconscio ma ha matrici molto salde nel mondo concreto, il quale si può dire sia, molto più delle numerose sequenze oniriche, il vero reame dello spaventoso e del perturbante. Non stupisce a questo punto l’enfasi che il dottor Man pone sull’individuazione delle cause concrete del disagio psichico (che per l’appunto si manifesta in primis nei sogni, e quindi nelle sequenze oniriche/horror), cosa che lo pone continuamente in situazione spiacevoli ma che è, almeno nell’ottica del film, fondamentale per la guarigione. Allo stesso modo non deve sorprendere la rappresentazione comunque sordida e sopra le righe della realtà materiale, un mondo di abiezione, violenza e volgarità rappresentato dai gialli, dai rossi e dai blu estremamente saturi dell’ottima fotografia di Jason Kwan (altro punto di contatto con "Coffin Homes"), uno spazio lurido gremito di suoni acuti o fragorosi come sono le urla dei personaggi quando sono vittima dei loro incubi interiori. A tale peculiare sinfonia di colori si oppongono le scale di grigi degli ambienti medici o dell’ufficio del dottor Man, d’altronde gli unici luoghi in cui è possibile cercare di risolvere il proprio disagio (nonostante il finale/scena mid-credits con Andy Lau paia far intuire che ciò non basta per esorcizzare i propri demoni).
Il focus sulle matrici concrete dell’orrore vissuto interiormente culmina nella lunghissima sequenza in cui si esplora la vicenda che ha portato Choi a divenire l’insonne taxista che mette costantemente in pericolo la vita dei propri passeggeri, e sua moglie a divenire la donna instabile e superstiziosa che è ora. La precisione del riferimento storico (la grande crisi finanziaria del 2008 e le sue molteplici vittime) può apparire quasi straniante in una pellicola che si era distinta fino ad allora per la visionarietà delle sequenze oniriche ma certifica una volta per tutte lo stretto legame fra le fantasmagorie orrorifiche cui si assiste nei sogni e l’orrore del crudele e cinico mondo reale che le ha generate. Spiace a questo punto che sia proprio da questo momento che "Peg O’ My Heart" (dalla canzone delle "Ziegfeld Follies" che funge da leitmotiv della pellicola) inizia a farsi sempre meno convincente, dissolvendosi in una serie di ridondanti e malamente montati rivoli narrativi, proprio nel momento in cui i suoi protagonisti hanno finalmente modo di fare pace con quanto fatto in passato, e di iniziare un effettivo processo di cura.
La struttura narrativa particolarmente involuta dell’ultimo terzo del film di Cheung potrebbe essere effettivamente un riferimento alla natura non consequenziale dei sogni, d’altronde efficacemente messa in immagini nelle sequenze oniriche della prima metà della pellicola, ma il fatto che questo sviluppo si esacerbi nella parte finale del film, da cui il registro onirico è quasi completamente bandito, finisce per dimostrare l’irresolutezza di "Peg O’ My Heart". L’accumulo di finali separati da banali dissolvenze in nero priva alla fine la pellicola di Cheung di molto del suo potenziale, il quale era legato proprio alla cripticità narrativa e alla grande inventiva nella messa in scena dell’orrore, delle quali non c’è traccia nei ripetitivi ultimi venti minuti del film. In questo "Peg O’ My Heart" diventa suo malgrado esempio di una tendenza cinematografica, quella all’accumulo di finali, che i film del Far East Film Festival di quest’anno hanno esibito in vari modi, sintomo forse di una mancanza di fiducia nei propri mezzi narrativi e rappresentativi che, all’interno di una pellicola incentrata sui concetti di espressioni e cura, non può che stonare e, purtroppo, contribuire a condannare il film di Cheung nel reame della medietà.
cast:
Nick Cheung, Terrance Lau, Fala Chen, Rebecca Zhu
regia:
Nick Cheung
titolo originale:
Suk Mung
durata:
98'
produzione:
Movie Impact Ltd., Paka Hill Film Production Co.
sceneggiatura:
Nick Cheung, Ryan Ling Wai-Chun
fotografia:
Jason Kwan
scenografie:
Peter Wong
montaggio:
Li Ka-wing
musiche:
Chan Kwong-Wing