"And all you know gets older when
The sun goes down
And everything begins to fade away
The waves have come and taken you to sea
Never to return to me"
Chelsea Wolfe, "The Waves Have Come"
Difficile ritenere casuale la scelta degli organizzatori del Far East Film Festival di inserire in programma uno dopo l’altro due film così affini, ovvero l’hongkonghese "The First Girl I Loved" di Candy Ng e Yeung Chiu-hoi e il giapponese "One Day, You Will Reach the Sea" di Nakagawa Ryūtarō. Le due pellicole che hanno riempito il pomeriggio dell’ultima giornata di concorso condividono infatti non solo la natura di coming of age e la centralità di due personaggi femminili fortemente differenti il cui rapporto è raccontato nel suo mutare nel tempo, ma anche una riflessione sull’identità e l’orientamento sessuale, pur centrale nel film hongkonghese e marginale, appena un accenno, in quello nipponico (fig. 1). Molto più rilevante in ambedue è il tema dell’influenza del passare del tempo sulle relazioni umane e sui sentimenti, che erode e altera i ricordi come le onde del mare le rocce (guarda caso in ambo i film il simbolismo dell’acqua è centrale), così come la questione del multiprospettivismo del reale, vale a dire l’irriducibilità di ogni evento e di ogni racconto a un solo punto di vista, che si lega al tema del passare del tempo in una danza che finisce per arricchire entrambi i nuclei tematici. Ancora più sorprendente è che queste riflessioni conducano nei due film a una meditazione sul ruolo del cinema, e in generale dei mezzi di ripresa audiovisivi, nella rielaborazione di questi ricordi e nella definizione di una prospettiva da cui poi raccontarli, seppur in modalità piuttosto differenti.
Fig. 1: coming of age e modelli di femminilità al confronto in
"The First Girl I Loved" e "One Day, You Will Reach the Sea"
"The First Girl I Loved" è infatti un coming of age sentimentale lesbico in fondo tradizionale, in cui i succitati temi si legano alla rievocazione nostalgica del passato (le sequenze dell’innamoramento adolescenziale luminose sia nei toni che nella fotografia sovraesposta), che diviene la messa in scena di una celebrazione, a sua volta nostalgica, del glorioso passato del cinema di Hong Kong, da cui derivano le scelte esplicitamente mimetiche nello stile del film, un omaggio ai sogni e alle memorie di un dolce passato nella forma di un omaggio alla Hong Kong appena successiva all’Handover e al suo cinema. D’altro canto "One Day You Will Reach the Sea" è un coming of age drammatico dalla regia minimale e pulita che si discioglie fin dall’inizio in una serie di rivoli narrativi e forme cinematografiche differenti (il racconto di fiction live action, il documentario, l’animazione), in cui la ricchezza tematica e stilistica converge nella riflessione sul lutto e la razionalizzazione dell’assenza delle persone amate, con l’ambizione di elevarsi da racconto individuale a parabola universale (o almeno nazionale, considerando la centralità che ha la tragedia del Tōhoku del 2011 nell’economia della narrazione). In maniera interessante, pur nelle considerevoli differenze appena discusse, entrambi i film condividono, stando almeno a quanto detto dagli autori nella presentazione, uno spunto biografico, se non autobiografico, capace di aggiungere un ulteriore livello a queste già stratificate riflessioni sul passaggio del tempo e il longing.
Fig. 2: il primo strato narrativo (la fiction)
La nostalgia e lo struggimento, e tutta la complessa rete semantica che si sviluppa attorno a questi concetti, sono pertanto centrali nell’analisi del film di Nakagawa Ryūtarō, il quale racconta in primis il processo di elaborazione del lutto per l’amica Sumire da parte della protagonista Mana. Nel percorso di elaborazione si inseriscono anche l’ex-fidanzato dell’amica Atsushi e la madre di lei, e in un secondo momento un collega di lavoro di Mana, ma i loro contributi restano secondari, pur influenti, ai fini del superamento del trauma (fig. 2). Il vero evento capitale in questo processo, e quello che rimarca quanto la tematica metalinguistica sia centrale in "One Day, You Will Reach the Sea", è l’ottenimento della vecchia videocamera con cui Sumire registrava buona parte della sua vita ("Non mi parleresti neanche se non fosse per quella", dice in un flashback il fidanzato rivolta alla ragazza che lo filma), forse anche l’evento che ha posto fine alla sua vita durante lo tsunami del 2011. Ciò però non viene mai chiarito e il presunto filmato, che sia Mana che Atsushi dichiarano di non voler vedere, viene allontanato dal reame del visibile (e dell’udibile), similmente a come avveniva in "Grizzly Man" di Werner Herzog con la registrazione dell’uccisione di Timothy Treadwell e della fidanzata Ami Huguenard da parte di un orso: la morte resta oscena ed è la vita che viene ricostruita e così rivissuta.
Fig. 3: il secondo strato narrativo (il documentario)
A partire dall’attivazione della videocamera inizia difatti a dipanarsi la vasta e non sempre chiara rete di flashback che compone la maggior parte del minutaggio del film di Nakagawa, partendo dall’incontro fra le due ragazze protagoniste, diversissime almeno in apparenza, alla cerimonia di immatricolazione per l’università, fino ad arrivare al progressivo allontanamento dopo aver preso le rispettive strade. Queste analessi si inseriscono nel processo di elaborazione del lutto di Mana, o meglio, lo avvolgono, e permettono alla giovane di comprendere di più quell’amica così vicina e così imperscrutabile, così come la aiutano a superare il continuo senso di morte e mancanza di significato che la accompagna ovunque vada (l’alienazione della madre di Sumire, il suicidio del suo superiore sul posto di lavoro, il perenne ricordo dei cari estinti da parte delle comunità vittime dello tsunami che visita). I flashback e i frammenti dei video di Sumire da cui spesso dipartono si pongono quindi come degli oggetti ibridi fra le già molteplici forme audiovisive che compongono, forse troppo confusamente, "One Day, You Will Reach the Sea": fra le sequenze iniziali e pre-finali di animazione, incarnanti la rielaborazione interiore, e inizialmente inconscia, dei traumi passati (fig. 4), i frammenti documentari con cui gli effettivi sopravvissuti alla tragedia del 2011 ricordano quegli eventi (fig. 3), e la più consistente storia di Mana, quei momenti fintamente documentari di autorappresentazione di Sumire si elevano a sineddoche della pellicola ibrida e immagine della natura personale e ineffabile della memoria.
Fig. 4: il terzo strato narrativo (l'animazione)
Ossessionata dal fatto che il ricordo dell’amica possa svanire Mana si ritrova tramite questi frammenti di un passato privato divenuto collettivo a riflettere sull’impermanenza di tutte le cose, il mono no aware che è una delle interpretazioni giapponesi dell’universale e sfaccettato senso di nostalgia (e di Sensucht, hiraeth, longing e così via), cui il cinema (le registrazioni dell’amica) è un palliativo ma, come diviene chiaro nel finale, soprattutto uno strumento di elaborazione. A partire dal confronto della protagonista con chi ha sofferto ancora più direttamente per via dello tsunami (le sezioni documentarie), il film si rovescia e ricomincia da quell’incontro fortuito all’inizio del percorso universitario per raccontare la storia della loro amicizia dal punto di vista di Sumire, fino alla tragica fine (anche in questo caso allusa e non mostrata). Se in "The First Girl I Loved" la storia dalla prospettiva dell’altra restava un qualcosa di fantasmatico, che emergeva solo nel pre-finale, dopo che la protagonista divenuta regista si trovava a mettere su pellicola il tema, nel film di Nakagawa essa è un punto di passaggio fondamentale per conoscere la "vera" Sumire e appunto mettere in prospettiva il rapporto fra le due giovani (fig. 5). Così come avviene per lo spettatore, anche Mana si trova così a risignificare pure il percorso di elaborazione del lutto, predisponendo così le catartiche sequenze finali in cui ritornano sia l’animazione sia la frontalità dei ritratti documentaristici mostrati in precedenza.
Fig. 5: il meta-strato narrativo (lo pseudo-documentario dei video di Sumire e i flashback di fiction che ne derivano)
L’animazione, in una sequenza irresoluta ma emozionante grazie all’ottima colonna sonora, mette in scena, quasi malickianamente, la storia di una vita, di ogni vita, perduta, e poi la inserisce dentro il letterale ciclo della vita che, in maniera un po’ ridondante, riconduce alla realtà del live action, la quale rispecchia a sua volta un’inquadratura dei filmati di Sumire da cui partiva una delle principali sequenze di ricordo e riflessione di Mana. Un finale "ritorno alla vita", e alla "realtà", che per certi versi ricorda un'altra complessa e ambiziosa pellicola giapponese recente. Il percorso è intricato, e forse anche un po’ confuso, ma va riconosciuto a Nakagawa Ryūtarō il coraggio di proporre una storia tanto personale in una forma così articolata e ibrida, una sorta di dimostrazione di quanto diversi materiali audiovisivi possano incarnare i diversi aspetti di un soggetto sfaccettato e irriducibile a una singola componente come è la vita umana, ogni singola vita umana.
cast:
Yukino Kishii, Minami Hamabe, Yosuke Sugino, Haya Nakazaki, Mayu Tsuruta
regia:
Ryūtarō Nakagawa
titolo originale:
Yagate Umi e to Todoku
durata:
126'
produzione:
Shinji Ogawa, Sei Ito
sceneggiatura:
Ryutaro Nakagawa, Eiji Umehara
fotografia:
Tai Ouchi
scenografie:
Keiko Matsunaga
montaggio:
Genta Tamaki
musiche:
Kyoko Kitahara