Dopo "Il sindaco del rione Sanità" e "Qui rido io", Martone realizza il terzo film consecutivo ambientato a Napoli, sua terra d'origine. L'ultimo capitolo di questa ideale trilogia partenopea racconta la storia di Felice Lasco che, scappato durante la giovinezza per evitare le conseguenze di un crimine, fa ritorno a casa dopo quarant'anni, periodo in cui è vissuto tra l'Africa e il Medio Oriente riuscendo a fare fortuna e a costruirsi una nuova vita. Il protagonista, infatti, raggiunge il rione Sanità come un estraneo: il marcato accento straniero e la difficoltà nel ricordare semplici termini in italiano, oltre agli usi legati alla religione musulmana (non beve alcol e pratica l'abluzione purificatoria che precede la preghiera), indicano che Felice è ormai una persona completamente diversa da quando era partito tanti anni prima.
Il ritorno del protagonista è dominato dalla figura del doppio, declinata in vari elementi oppositivi e finalizzati a esprimere la lacerazione interiore che lo caratterizza. Il film, infatti, ci mostra Lasco non solo in bilico fra due patrie, l'Egitto che lo ha adottato e la Napoli della sua giovinezza, e due donne, la bella ed elegante moglie che lo aspetta al Cairo e la madre anziana nel rione Sanità, ma anche, come specificato poco sopra, fra due religioni, l'Islam che ha abbracciato in Egitto e il Cattolicesimo della terra natia, oltre che fra altrettante lingue, ovvero l'iniziale incertezza nell'uso dell'italiano e la finale decisa acquisizione del dialetto partenopeo. Questi sono solo i sintomi maggiormente superficiali del dissidio profondo che attanaglia il protagonista, scisso fra due identità e altrettante temporalità che vengono raccontate nel lungometraggio. Martone, infatti, ci mostra Felice mentre riprende progressivamente contatto con il proprio passato e la persona che è stata decenni fa, alternando le riprese ambientate nel presente diegetico a spezzoni che raffigurano i suoi ricordi risalenti alla giovinezza, segnalati da un formato ridotto e da una grana delle immagini che rievoca i filmati familiari in Super 8. I modi gentili ed educati del protagonista si accompagnano frequentemente alle parole di quest'ultimo che ricorda come, durante l'adolescenza, abbia spesso fatto soffrire la madre a causa del suo comportamento: la sua identità è divisa anche da un punto di vista sociale e di classe, essendo ormai un uomo ricco ed economicamente affermato che ripiomba nel milieu sociale del suo passato caratterizzato da piccoli crimini propri di un'estrazione sottoproletaria. Si tratta di una tematica spesso presente nel regista, come ricorda Emiliano Morreale, dato che «quelli di Martone sono film sulla borghesia e sulle sue contraddizioni, sul suo rapporto con dei luoghi e con altre classi: Caccioppoli nei vicoli [in "Morte di un matematico napoletano"]; la Napoli al confine tra piccola borghesia e plebe in cui si inoltra Delia [in "L'amore molesto"]; l'intellettuale e il teppistello fascista de "L'odore del sangue"; infine le contraddizioni dei cospiratori di "Noi credevamo", che hanno la loro radice ultima proprio nel rapporto irrisolto con il popolo» [1].
Al rapporto tra Felice e i luoghi del rione Sanità è dedicato gran parte del film, perché la riscoperta del proprio passato e, dunque, della propria identità sopita da anni di latitanza avviene anche e soprattutto tramite il vagabondare per i vicoli e le strade del quartiere partenopeo. Tuttavia, anche questo aspetto viene declinato in una duplice modalità, dato che, infatti, Martone sceglie di mostrarci lo spazio affidandosi a due figure grammaticali specifiche: i campi medi con cui pedina il protagonista mentre cammina per i vicoli e i campi lunghissimi dall'alto che inquadrano il paesaggio restituendocelo con dovizia di particolari, come accade, ad esempio, dall'albergo nel Centro Direzionale in cui Lasco alloggia all'inizio del film e da cui può ammirare in posizione sopraelevata le aree sottostanti, oppure dal balcone accanto alla chiesa in cui quest'ultimo e Don Luigi si appartano per farsi delle confidenze. Alcuni luoghi, inoltre, assumono una valenza particolarmente importante per il processo di riacquisizione del passato da parte del protagonista, dato che vengono da quest'ultimo "vissuti" due volte: ne è un esempio la salita di Capodimonte, che il regista ci mostra mentre viene percorsa da Felice sia nel presente diegetico che nel ricordo del passato. Lo spazio, infine, si sdoppia in un rapporto ambivalente fra interno ed esterno, caratterizzato da confini porosi e instabili: l'appartamento che Lasco compra alla madre viene imbrattato da malavitosi che vi entrano illegalmente; inoltre, durante una passeggiata notturna, il protagonista assiste impotente a un gruppo di giovani camorristi che spara verso le case. A ben vedere, anche questa è una costante nella rappresentazione di Napoli che viene fatta da Martone: si pensi a "L'amore molesto", la cui sonorità è particolarmente ricca dei rumori che provengono dall'esterno tanto da intrattenere un rapporto dialogico con le conversazioni che avvengono negli interni domestici.
Il film si apre con un verso tratto da "Poesie in forma di rosa" di Pasolini: «La conoscenza è nella nostalgia. Chi non si è perso non possiede». Il dissidio interiore su cui si fonda la vicenda di Felice coincide dunque con una ricerca ossessiva di conoscenza del passato e di riappropriazione di se stesso. La figura del doppio caratterizza anche il processo di analisi interiore del protagonista che, infatti, converge verso due personaggi: un prete, Don Luigi, e Oreste, l'amico della giovinezza ora boss della criminalità. Il racconto, in questo modo, viene polarizzato in una duplice opposizione antitetica: la salvezza e la speranza cristiana incarnata dal sacerdote, impegnato in una coraggiosa lotta alla malavita locale e finalizzata a dare un futuro ai giovani del luogo, e la "montagna di monnezza", come lo stesso Oreste definisce il suo regno criminale. La ricerca di Felice verso se stesso si delinea nei termini di un triangolo, i cui vertici sono composti dal protagonista e dai due personaggi che, contemporaneamente, lo attirano e lo respingono più volte, costringendolo ad un duplice movimento contraddittorio: da un lato verso un nucleo tragico, per cui la vicenda è determinata da un senso di sconfitta e di fine, dall'altro verso l'apertura al mondo e alla vita. Questa polarizzazione simbolica e astratta, che vede il protagonista barcamenarsi tra due figure allegoriche (una incarna il bene e l'altra la perdizione), sospese tra due temporalità distinte (il prete appartiene al presente diegetico, mentre Oreste compare soprattutto nei ricordi, quindi si colloca nel passato), è l'aspetto più interessante del film, capace di assumere il portato simbolico di una tragedia, e, insieme, la sua caratteristica maggiormente claudicante perché eccessivamente astratta, tanto da cozzare con il pronunciato realismo del lungometraggio, immerso nella veridicità prosaica e bellissima dei vicoli e dei palazzi del rione Sanità.
[1] E. Morreale, Cinema saggistico e cinema di fantasmi, in R. De Gaetano e B. Roberti (a cura di), Mario Martone. La scena e lo schermo, Donzelli Editore, Roma, 2013, p. 59.
cast:
Pierfrancesco Favino, Francesco Di Leva, Tommaso Ragno, Aurora Quattrocchi, Nello Mascia
regia:
Mario Martone
distribuzione:
Medusa Film
durata:
117'
produzione:
Picomedia, Mad Entertainment, Rosebud Entertainment Pictures
sceneggiatura:
Ermanno Rea, Mario Martone, Ippolita Di Majo
fotografia:
Paolo Carnera
scenografie:
Carmine Guarino
montaggio:
Jacopo Quadri
costumi:
Ursula Patzak