Bond va in pensione. Potrebbe richiamare il titolo di una commedia sul signor Hulot, invece è l’inizio di una nuova avventura per l’agente segreto di Sua Maestà. Avvicinato nel suo riposo giamaicano dall’amico della Cia Felix Leiter, Bond accetta di recarsi a Cuba per conto dell’intelligence statunitense. Scampa misteriosamente a una esecuzione della Spectre, ma, tradito, decide di tornare a Londra per ottenere risposte. Lì scopre del progetto Heracles: una nanotecnologia in grado di fungere da vettore virale per specifiche persone che condividano un certo codice genetico. Un losco personaggio di nome Lyutsifer Satin (Rami Malek) se ne è impadronito e la faccenda sembra coinvolgere misteriosamente anche l’amata Madeleine (Léa Seydoux).
È ormai senza strizzate d’occhio che nel venticinquesimo film dedicato alla più celebrata delle spie britanniche i personaggi parlano e agiscono come fossero consci di una mitologia bondiana. Che 007 non sia solo un numero è cosa chiara anche a loro e sebbene ne facciano apertamente ironia ("pensavi che l’avrebbero cancellato dopo il tuo pensionamento?"), si peritano poi di ribadirne con serietà l’assolutezza ("propongo di reintegrare il Comandante Bond come 007").
La svolta principale operata da Sam Mendes con "Skyfall" era per l’appunto quella di un discorso meta-testuale in cui l’interno e l’esterno del corpo filmico andavano a convergere, come se il Philip Marlowe di Elliot Gould facesse ironia sui gesti di Bogart. Al contempo agenti e spettatori di una mitologia che si sviluppa innanzi ai loro occhi, i personaggi assistono allo spettacolo-Bond e ne certificano la storicità per mezzo di chiose, riferimenti, citazioni lasciate cadere con sorniona disinvoltura. In questo gioco linguistico, che si dà come deriva del postmoderno, a emergere è una dimensione cerebrale del tutto estranea alla saga. Non a caso "Spectre" aveva optato per una ricalibratura dello sguardo dopo che "Skyfall", così inventivo (da spedire Bond nella brughiera scozzese), cerebrale (nel gioco citazionista) e teorico (nella riscrittura del mito), aveva scontentato gli appassionati della prima ora, che a un film di 007 chiedono ragionevolmente non più che auto storiche, comprimarie di sinuosa eleganza e un discreto numero di vodka Martini agitati, non mescolati.
Efficace nel restituire al pubblico gli elementi cardine della sua mitologia, "Spectre" si è rivelato, però, un fallimento, principalmente per il risibile movente di un cattivo al quale non riusciamo a credere neppure per un attimo, e rimane a oggi il capitolo più debole – con "Quantum of Solace" – dell’avventura di Daniel Craig. "No Time To Die" ha ora la sfrontatezza di cercare un difficile equilibrio tra queste due anime, ossia fra lo spettacolo tradizionale e la messa in scena di una mitologia consapevole.
Ci preme dunque gettare separatamente uno sguardo a questi aspetti cardine per poi decidere con quanta eventuale abilità siano stati combinati. Con una duplice avvertenza: che seguiranno spoiler e che, rinunciando a futili pretese di distanza critica, quanto segue avrà forse più la forma del resoconto sentimentale che della canonica recensione, cosa del resto giustificata dal forte legame di chi scrive con la saga e dal fatto che di questa il film si ponga, a prescindere dai risultati, come una definitiva resa dei conti.
Il Passato. La spia che amavamo
James Bond non è mai stato un eroe d’azione, né Ian Fleming l’aveva così immaginato. Vi è tuttavia un limite al numero di cocktail che si possono sorbire in rigoroso smoking prima che il ridicolo faccia capolino e Pierce Brosnan, sornione, l’aveva compreso facendo di quei gesti esausti una parodia molto irlandese, vale a dire intelligente e spietata. La mutazione muscolare dell’era-Craig ha dunque un suo valore, sebbene devii la natura degli intrecci nella direzione di un corpo a corpo ipertrofico. "No Time To Die" si adegua così alle esigenze dello spettacolo odierno e dopo un breve cenno su sfondo innevato alle ragioni di quel che vedremo più avanti – una delle migliori parentesi del film – ci precipita nella pietrosa Matera, dove Bond, serrato con Madeleine in una Aston Martin crivellata di proiettili, ritrova la durezza di sguardo di "Casinò Royale".
Seguendo l’adagio che prescrive di investire il massimo di risorse nel prologo e nell’epilogo per conquistare il pubblico – che, dimentico di eventuali intoppi nel mezzo, entra ed esce dal film con la medesima soddisfazione – "No Time To Die" è chiuso tra un incipit suggestivo e adrenalinico e un gran finale pirotecnico in cui si manifesta al suo culmine il portato romantico del personaggio di Craig.
Nel mezzo gli accadimenti trascorrono rapidi e il film, imprendibile, muta costantemente pelle, osando persino derubricare Bond al ruolo di comprimario in uno dei principali frangenti action dell’intreccio, dove brilla in solitaria, seppur per pochi minuti, la giocosa, seducente e pericolosissima Ana de Armas, bondiana sin dal nome e tanto aggraziata nelle sparatorie da sottrarre la scena anche alla collega Lashana Lynch, colei che ha occupato il titolo di 007 all’MI6. L’effetto è disorientante, tanto che se non ci soccorressero occasionalmente le note di Monty Norman potremmo persino dubitare di aver sbagliato sala.
Due mancanze di non poco conto vanno tuttavia segnalate: una certa mollezza nelle scene d’azione, che, pur godibili, lasciano il rimpianto per le geometrie rigorose di Martin Campbell e le stilizzazioni autoriali di Mendes, e più ancora la fiacca alchimia tra Daniel Craig e Léa Seydoux, che rende assai difficile credere al crescendo melodrammatico del film.
Il Presente. Solo per i suoi occhi
Vi è, in questo capitolo della saga, una sorprendente varietà di luoghi e scene, che se in "Skyfall" procedevano inesorabili verso quella indimenticabile resa dei conti nelle brume scozzesi e in "Spectre" disperdevano la tensione in una sequela di finali sempre più deboli, qui ci inoltrano in un fitto sottobosco di simboli freudiani. Il che non sorprende, data la natura pensosa dei protagonisti e il continuo accento sui segni che il passato ha inciso in loro. Meglio: i passati, dacché è il complesso della mitologia bondiana a essere qui semantizzato. Il tormento di Madeleine non è dissimile da quello di Melina Havelock in "Solo per i tuoi occhi" e il suo ruolo è chiaramente l’estensione della Tracy di "Al servizio segreto di sua maestà"; la pensione giamaicana dilata la breve parentesi esotica di "Skyfall", di cui il prologo a Matera replica inoltre i cromatismi saturi dell’incipit motociclistico; l’intimità alberghiera di Bond e Madeleine riporta subito alla mente quella analoga di "Casinò Royale" risalendo sino alla sua originaria tematizzazione nel finale veneziano di "Dalla Russia con amore".
Consapevoli poi di quanto qui si sia a rischio di sovrainterpretazione, non possiamo negare che quel finale su un’isola inaccessibile, dove uomini in tenute anticontaminazione lavorano in una vasca che diviene oggetto di morte, mentre il cattivo propone un patto al protagonista sedendo a un tavolo dalle forme orientaleggianti, abbia suscitato in noi un immediato apparentamento con l’ultimo atto del capostipite "Licenza di uccidere".
Messo a confronto col suo mito, di cui ricorrono in continuazione immagini, oggetti, forme Craig-Bond nicchia, vorrebbe – è chiaro sin da "Casinò Royale" – defilarsene e per questo si fa col tempo sgraziato, rude, violento, malinconico, ferito, debole, fallibile. Salvo accorgersi infine che la stessa immagine del buen retiro giamaicano altro non è che l’ennesima bolla di vetro in cui la tradizione lo ha incastonato. E l’unico modo per evadere dal mito – dopo che neppure la frantumazione identitaria accuratamente programmata e qui ripetuta dall’infinito specchiarsi della figura di Bond durante l’interrogatorio con Ernst Stavro Blofeld (Foto 2) ne ha moderato la portata – è farlo deflagrare in un impensabile gesto finale.
ATTENZIONE: SEGUONO SPOILER
Il Futuro. La morte (non) può attendere
In "No Time To Die" a emergere è anzitutto la stanchezza. Non del ritmo, si badi, che anzi è ben sostenuto a fronte dell’ingombrante durata, ma del gesto. L’impressione è quella di un intreccio in cui ogni svolta sia programmata, in cui quel che accade lo fa per necessità e non per scelta dei personaggi; da qui la loro malinconica rassegnazione.
Il senso di una fine è chiaro sin dai primi minuti che sottraggono a Bond il naturale protagonismo, da quell’addio sulla banchina ferroviaria che sembra già una conclusione, dalla riluttanza verso una missione inauditamente non al servizio di Sua Maestà, dalla rabbia colpevole di M nei foschi uffici della capitale, dall’aria opprimente che venta su ogni scena. La conclusione giunge dunque naturale e inevitabile, eppure insieme inconcepibile. In quei fuochi d’artificio che ne bruciano l’immagine in un eccesso di luce, Bond esce di scena. Lo fa in maniera più sentimentale, ma decisamente meno elegante di come vi era entrato nel 1962, prima mano su un tappeto verde, poi voce e infine volto. E un nome: Bond. James Bond.
Non v’è dubbio che in futuro altri 007 occuperanno il posto vacante, ne assumeranno il nome e faranno i conti con una immagine nuovamente da riscrivere, da adattare ai tempi, ma quel tacito accordo che aveva sin qui distinto gli episodi della saga – che cioè Bond continuasse tra un film e l’altro a gustare i suoi vodka Martini fumando al tavolo verde – è definitivamente declinato. Bond non sarà mai più Bond.
Avevamo creduto a Brosnan quando ci aveva suggerito che il domani non sarebbe mai venuto meno, tuttavia questa volta la morte non ha potuto (o voluto) attendere.
cast:
Daniel Craig, Léa Seydoux, Rami Malek, Ralph Fiennes, Naomie Harris, Lashana Lynch, Christoph Waltz
regia:
Cary Joji Fukunaga
distribuzione:
Universal Pictures
durata:
163'
produzione:
Barbara Broccoli, Michael G. Wilson, MGM, Columbia Pictures
sceneggiatura:
Cary Fukunaga, Neal Purvis, Robert Wade
fotografia:
Linus Sandgren
scenografie:
Véronique Melery
montaggio:
Tom Cross, Elliot Graham
costumi:
Suttirat Anne Larlab
musiche:
Hans Zimmer