Il fascino di Los Angeles sta anche nella rappresentazione criminale che il cinema continua a darne negli anni. Spesso luogo di colpi grossi, assalti alle banche o polo di traffici; teatro di duelli delle figure mitiche di poliziotto e bandito. Christian Gudegast rimette in piedi il contesto e incrocia l'
heist movie al poliziesco muscolare, diluendo il primo ed esacerbando il secondo di stereotipi dei quali si fa forte.
L'incipit da western urbano, dopo l'assalto a un blindato portavalori, mette lo sceriffo di contea Big Nick (Gerard Butler) sulle tracce di una banda composta da ex-militari. Blindato vuoto ma sequestrato con massima cura, poliziotti morti: Big Nick annusa una pista per un altro possibile colpo.
Due gruppi antitetici sul piano sociale, sposano principi simili di azione per la preparazione sul campo e per il
modus vivendi/
operandi. Big Nick e la sua squadra operano al di sopra dei regimi legali, i tatuaggi e le sbronze con spogliarelliste fanno pensare a una gang col distintivo; elementi contrapposti ai patetismi silenziosi e affettati di cui vestono Ray Merriman e la cricca di rapinatori al suo comando. L'incertezza su quale sia il nucleo da tifare per confinare lo spettatore in un coerente quadro di lettura non è figlia di un volontario livellamento tra "buoni e cattivi", ma dell'imprecisione, possibilmente in fase di scrittura. L'assalto al confine silenzioso tra ordine e malavita diventa reazionario, stampato come un timbro nella muscolatura sempre in risalto di Butler e comprimari, la cui forza si esalta nella spietatezza con cui sventolano il distintivo quale fregio legittimante. E nemmeno il sottobosco della contea losangelina si salva dalla lettura fascistoide di Gudegast in quanto Merriman e compagnia abitano belle case e mangiano bistecche, puntando alla
Federal Reserve Bank per salvaguardare il proprio lusso, inquadrati a metà tra una fratellanza ferrea e bulletti di quartiere ai quali Gudegast preferisce riservare incolori scenette di vita privata piuttosto che un movente del loro operato.
Su una cosa "Nella tana dei lupi" è certo e non lesina alcunché: la
gravitas nelle azioni e nelle parole che solleva il film da qualsiasi ironia o autoironia. Il
plongèe che parte da elevate posizioni per ancorarsi al blindato oggettivizza una realtà dei fatti: Los Angeles è la città delle rapine. Gudegast ci consegna dunque un racconto che vuole essere ancorato alla credibilità, alla loro attuabilità delle azioni, eppure al di sopra delle aspettative come mostra l'ingegnoso e piacevolmente orchestrato piano alla
Fed. Lo scontro finale diventa così la valvola di sfogo sovradimensionante di un tollerabile e piacevole controllo prima del conflitto a fuoco.
La sfida tra Big Nick, personificazione dell'immagine attoriale di Butler perpetuata nei ruoli passati, e Merrimen incede tra machismi intimidatori e sfide lanciate apertamente in un alternarsi di vantaggi e svantaggi prima di quest'ultimo, appunto, duello mortale in cui le autostrade losangeline diventano la frontiera messico-americana di "
Sicario", del quale contesto e ricerca di realismo vengono condivisi/emulati.
"Nella tana dei lupi" è emule e derivante da molte altre iterazioni del genere, rubacchiando qua e là ("
Heat", "
Codice 999"), ma più che un'aggravante lo definirei un tentativo di forzata e immediata classificazione al genere, emulazione convertitasi in copia dalle fattezze possenti come calco dell'action muscolare superato, d'altri tempi. Gudegast non è Walter Hill però, e tantomeno
Michael Mann. E anche se il districarsi della rapina non subisce cali nel suo svolgimento, fino al finale a sorpresa, sembra di assistere a una prova di forza registica (impressionante anche il sonoro) senza alcun atto d'amore, senza coscienza critica. È un esordio per Gudegast, per ora promosso con riserva.