"Minari" ha vinto il premio della giuria al Sundance e il Golden Globe come miglior film straniero – con le inevitabili polemiche del caso. Infatti, secondo la regista Lulu Wang avrebbe dovuto partecipare alla semplice categoria miglior film (vinto invece da "Nomadland"), in quanto non esiste storia più americana di una famiglia che emigra in America per avverare il sogno americano. Da norma (non irragionevole), un film che presenta più del 50% dei dialoghi in una lingua diversa dall’inglese deve essere considerato straniero; la replica (non irragionevole), nel 2020 non si può ridurre la cultura americana alla sola lingua inglese.
Accolto dunque con un nutrito codazzo di applausi e dibattiti, "Minari" è in realtà assai lontano, nei toni e nelle intenzioni, dall’essere un film divisivo. Dopo aver debuttato nel 2007 con il potente "Munyurangabo", affresco del Rwanda contemporaneo, Lee Isaac Chung torna alla propria infanzia, quella di un bambino coreano trapiantato nelle highlands dell’Arkansas. È in questi altipiani verdi e desolati che Jacob Yi (Steven Yeun) trascina di malavoglia la moglie Monica (Han Ye-ri) e i due figli, la giovane Anne e il piccolo David – alter ego del regista. Lui sogna una fattoria di ortaggi coreani, lei un ritorno nella beata California; entrambi lavorano in un allevamento avicolo come sessatori di pulcini. Davanti alla ciminiera, Jacob spiega al secondogenito che i pulcini maschi vengono bruciati alla nascita. Quindi è necessario rendersi utili. E il prima possibile.
La metafora è sottile quanto la ciminiera. Eppure "Minari", in controtendenza con i tempi che corrono, non rappresenta una critica quanto una fedele incarnazione dell’American Dream. Chung è abile a mantenere una lieve ma palpabile atmosfera di tensione, soffiando sulle braci che covano sotto lo spartano tetto coniugale: l’aiuto sincero e opprimente di Paul, cristiano integralista e reduce di Corea, l’arrivo indesiderato di una nonna che impreca e gioca d’azzardo, la malattia cardiaca del piccolo David, la disdetta di alcune partite di ortaggi, l’esaurimento di una falda acquifera… nella diffusa epifania di una robusta fragilità risiede il maggior merito del film, che è sorprendentemente parco di espressività per essere un racconto autobiografico.
Infatti, a dispetto di poche scene filtrate dagli occhi di David (una notte, al buio, pensieri di morte; la gita al fiume con la nonna, a piantare sul greto il minari, un’erba infestante), la diegesi stempera tensioni e intenzioni in una cinematografia apolide, ricca di immagini e povera di fantasia. In un realismo da scuola cinema si susseguono interni impersonali e, quel che è più grave, esterni che paiono arrangiati senza alcuno studio compositivo (framing), incapaci di veicolare quel senso dello spazio e della terra che dovrebbe essere alla base di un dramma pastorale. In questo senso, Chung e Milne non sono riusciti con l’Arkansas a realizzare qualcosa di analogo a quello che, a titolo di esempio, Eastwood e Green hanno fatto con l’Iowa. In questa Arcadia sdilinquita, da sussidiario di geografia, il racconto si rivela più lineare che sottile, più scarno che intimo.
Comunque abbastanza per far emergere una volta di più il poliedrico talento di Steven Yeun (la miglior prova nel magnifico "Burning"), per saggiare il gusto etereo e inquietante dei ricordi d’infanzia, per cogliere nella resilienza del minari un’altra metafora lapalissiana. In sintesi un dramma familiare ben confezionato che, interpretando la voce di una minoranza etnica, si candida a qualsiasi concorso da protagonista. Anche se forse, al netto delle regole dei GG, sarebbe stato meglio considerarlo un film americano: se non altro avrebbe lasciato maggior spazio alle più allettanti nomination de "La Llorona" (J. Bustamante, 2019) e "Un altro giro" (T. Vinterberg, 2020).
cast:
Will Patton, Youn Yuh-jung, Noel Kate Cho, Alan Kim, Han Ye-ri, Steven Yeun
regia:
Lee Isaac Chung
titolo originale:
Minari
distribuzione:
Academy Two
durata:
115'
produzione:
Plan B Entertainment
sceneggiatura:
Lee Isaac Chung
fotografia:
Lachlan Milne
scenografie:
Yong Ok Lee
montaggio:
Harry Yoon
costumi:
Susanna Song
musiche:
Emile Mosseri