"All right, well, you are the artist, Miles.
How would you say it?"
Può sembrare controintuitivo o quantomeno singolare, ma specialmente al cinema non esiste genere più efficace di quello biografico nel comprovare la validità del noto principio aristotelico che antepone al vero il verosimile. Il resoconto dei fatti "così come sono avvenuti" che dovrebbe contraddistinguere una prospettiva storica, limitandosi all’esame del particolare, sembra disporre di un potenziale espressivo e anche conoscitivo assai inferiore rispetto allo slancio del possibile, al racconto delle cose "quali possono o potevano avvenire" che tende invece ad abbracciare l’universale, sostituendo all’ossequio della verità e dell’evidenza, il potente principio logico e generativo della necessità narrativa. Del resto, come si legge nella "Poetica", "credibile è il possibile, e noi non crediamo sempre possibile quel che non è avvenuto, mentre ciò che è avvenuto è chiaro che era possibile, perché se fosse stato impossibile non sarebbe avvenuto".
Queste considerazioni probabilmente aiutano a capire perché, tra le pellicole che si focalizzano sulla vita di una figura di spicco, quelle che si pongono come principali obiettivi la completezza e l’attendibilità storica (non certo requisiti attinenti a un prodotto cinematografico), perlopiù scadano nel compendio didattico o, peggio ancora, nella vacua celebrazione agiografica, mentre le opere che più apertamente si discostano dal rispetto dei fatti, dalla compiutezza e dall’ammirazione reverenziale, riescano a raggiungere con maggiore incisività il cuore del personaggio che raccontano o a portarne alla luce aspetti autentici ma spesso sottaciuti. Non è tanto una banale questione "quantitativa" che impedisce all’estensione di un solo film di contenere l’ampiezza di un intero percorso biografico e la grandiosità del suo impatto in un certo campo d’azione, quanto una scelta di metodo. Esempi recenti ed eccellenti come il Rembrandt e l’Eisenstein di Peter Greenaway o, in ottica del tutto differente, il Neruda e la Jackie Kennedy di Pablo Larrain dimostrano come in mano ad autori dotati di grande consapevolezza linguistica e di indubbia levatura intellettuale questo approccio possa perfezionarsi fino a diventare un vero e proprio criterio sistematico d’indagine, ugualmente proficuo sia sul piano espressivo sia su quello teorico e documentale. Non è comunque necessario coltivare ambizioni così elevate per realizzare un prodotto godibile e di qualità: lo conferma questo valido esordio alla regia di Don Cheadle che con disinvoltura affronta una figura chiave della scena musicale e, più estesamente, culturale del Ventesimo secolo, sua maestà Miles Davis.
La collocazione temporale del racconto è piuttosto cruciale: il 1979, sul finire del difficile quinquennio che vide il musicista – fino al 1975 all’apice del successo, dopo la celeberrima svolta fusion che lo aveva consacrato come una rock star internazionale – lontano dai palcoscenici e dagli studi di registrazione. La depressione montante, l’aggravarsi di alcuni acciacchi fisici piuttosto seri, la ricaduta nella tossicodipendenza avevano indotto Davis a un inerte autoisolamento domestico, trascorso solo in compagnia del telecomando e della cocaina. Questa eclatante e prolungata interruzione, giunta dopo anni di altrettanto clamorosa iperattività, finì per alimentarne il mito presso il pubblico e accrescere gli appetiti dei discografici, scalpitanti per un ritorno in scena che avrebbe generosamente riempito le loro casse. Entro questa cornice del tutto veridica, Cheadle organizza un gioco delle parti – intavolabile con un "facciamo finta che…" – in cui la musica sembra servire soltanto da innesco, per poi cedere il passo a traiettorie estranee e prettamente cinematografiche. Pistola in pugno, l’iconico trombettista, affiancato da un improvvido giornalista musicale desideroso di intervistarlo per dare una svolta alla sua carriera, si lancia nel rocambolesco recupero di una sua attesissima incisione inedita dopo che questa gli è stata sottratta clandestinamente dal salotto di casa per mano di un bieco produttore senza scrupoli. Ne viene fuori uno strano e picaresco noir che sembra far tutto fuorché glorificare la statura artistica del suo protagonista, ridotto quasi alla stregua di un piccolo malvivente dal comportamento narcisistico e instabile.
E invece, come spesso accade, in linea con il succitato teorema aristotelico, la sostituzione, la reinvenzione, la provocazione, il parossismo, esercitati con la dovuta destrezza, consentono di raggiungere dei noccioli di verità che al contrario una frontalità ottusa e prudente terrebbe celati tra le dense folate d’incenso della retorica e del luogo comune. A maggior ragione, in un contesto sostanzialmente ludico e privo di particolari ambizioni come quello in analisi, un approccio così originale paga. Facendo storcere il naso agli appassionati, Cheadle riduce al minimo le performance, eppure in un breve dialogo come quello tra Davis al piano e il suo improbabile compare, riesce a far emergere una serie di argomenti puntuali sulle insospettabili fonti classiche della sua musica, sulla tensione tutt’altro che pacificata verso l’innovazione e la continua messa in discussione del proprio linguaggio, sul rifiuto di collocazioni preclusive, sul rapporto difficile con le tendenze, il mercato, il denaro. "That’s my music" continua a ripetere Miles, rivendicando, oltre al sincero, ossessivo attaccamento al suo lavoro, un possesso che è inscindibilmente artistico ed economico. Un aspetto, quest’ultimo, nient’affatto secondario o sconveniente, anzi gravido di conseguenze cruciali dentro il mondo feroce dell’industria discografica – per nulla diverso da come qui viene causticamente messo in scena – soprattutto per un afroamericano.
A convincere meno, sul versante strettamente cinematografico, è il doppio binario narrativo, impostato prevalentemente, in modo un po’ schematico, sulla dolorosa separazione dalla prima moglie, la ballerina Francis Taylor, il cui volto si staglia sulle copertine di ben tre formidabili album per la Columbia ("E.S.P.", "Someday My Prince Will Come" e il live al Blackhawk Supper Club di San Francisco). Divertente, ma non troppo originale, è pure la patina vintage che cita con gusto cliché e stilemi della grande tradizione di genere degli anni Settanta, mentre davvero irresistibili si rivelano le movenze dell’interprete Cheadle, credibilissimo perché equidistante sia da manie mimetiche che da artifici macchiettistici, e dello scarmigliato Ewan McGregor. Ma i risvolti indubbiamente più brillanti stanno proprio in quella capacità di giocare con l’invenzione e la menzogna che mette in relazione questo piccolo felice film con un vero e proprio sottogenere letterario, quello delle autobiografie dei jazzisti (pratica alla quale Davis ovviamente non s’è sottratto): una sequela di golose bugie tanto inattendibili sul piano strettamente storiografico, quanto spesso rivelatrici della visione sempre contrastante e (auto)illusoria di sé e del mondo. E allora al perentorio "How would you say it?" su cui si dissolve l’immaginaria intervista che dà inizio al film, non è improbabile che il vero Miles si sarebbe divertito a rispondere con una storia simile.
cast:
Austin Lyon, Keith Stanfield, Michael Stuhlbarg, Ewan McGregor, Emayatzy Corinealdi, Don Cheadle
regia:
Don Cheadle
durata:
100'
produzione:
Bifrost Pictures, Crescendo Productions, Naked City Films
sceneggiatura:
Steven Baigelman, Don Cheadle
fotografia:
Roberto Schaefer
scenografie:
Helen Britten
montaggio:
John Axelrad, Kayla Emter
costumi:
Gersha Phillips
musiche:
Robert Glasper