Non è poi così faticoso intuire come la quarantaquattrenne regista saudita Haifa al-Mansour sia rimasta affascinata dal progetto (o meglio co-progetto targato Regno Unito, Usa e Lussemburgo) legato al biopic sulla scrittrice londinese del diciannovesimo secolo autrice di uno tra i capisaldi della letteratura gotica e dell'orrore "Frankenstein, o il moderno Prometeo" (1817). La Shelley e la al-Mansour, pur non avendo potuto abbracciare e condividere lo stesso secolo, sono infatti intrinsecamente accomunate dal forte impegno culturale e sociale profuso nel battersi per la dignità, l'indipendenza e l'emancipazione della donna.
La scrittrice eredita dalla madre e collega Mary Wollstonecraft (morta pochi giorni dopo averla messa alla luce) il nobile valore femminista, autrice di testi come la "Rivendicazione dei diritti della donna" scritto nel 1792. Un eredità che Mary Shelley inseguirà e otterrà attraverso la riconosciuta autenticazione e paternità del suo lavoro più importante. Due secoli più tardi la regista saudita eredita dal padre l'amore (vietato) per il cinema. Anch'essa lotta per il genere femminile, mostrando dapprima la dignità perduta (forse mai avuta) delle donne in Medio Oriente nel documentario "Women Without Shadows" (2005), e in seguito col film di finzione "
La bicicletta verde" (2012) che si incunea tra le falde di una povertà mentale radicalizzata e tra il perverso e intollerante stato di chiusura del suo Paese.
Il suo ultimo film si incentra sulla giovane vita della scrittrice, poco dedita ai lavori domestici e molto più a suo agio presso il cimitero di famiglia a forgiare l'atmosfera per le sue letture e i suoi gotici racconti. Atteggiamento che pone subito in chiaro l'avversione per la matrigna e, per contro, l'amore incondizionato per la sorellastra Claire e il padre, il politico William Godwin (celebre la sua risposta a Edmund Burke nella "Inchiesta sulla giustizia politica" del 1793). Il
coup de théâtre ha un nome, quello del titolo: Percy Bysshe Shelley, avvenente e libertino poeta romantico di cui la ragazza subito si invaghisce. Di fatto, il burrascoso amore tra i due è l'unico elemento a tenere in piedi la struttura del racconto, la al-Mansour utilizza la macchina da presa con discreta eleganza, lavorando più di sottrazione da un punto di vista tecnico, lasciando che siano i dialoghi e le interpretazioni artistiche a risaltarne la firma.
Il risultato però non è esente da imperfezioni su più fronti. Manca appunto un'ispirazione autoriale (se vogliamo, propriamente tecnica) che dia adito all'enfasi, a quel connubio viscerale tra eros/thanatos che abbiamo già eccellentemente visto nelle ultime trasposizioni romantico settecentesche e ottocentesche, con i piano sequenza di Joe Wright in "
Anna Karenina" e con il
mood di Jane Campion in "
Bright Star" (a rafforzare il connubio tra i due film il fatto che il poeta John Keats fosse un intimo amico di Percy Shelley). Al netto della bella prova della Fanning, uno spazio vuoto incombe invece sui personaggi secondari come Lord Byron e Hogg, entrambi corrosi da uno spirito eccessivamente libertino figlio della propria dissoluzione morale e che, soprattutto in relazione alle tematiche della protagonista, potevano sicuramente essere più elaborate.
Quello che palesemente interessa a Haifaa al-Mansour è dunque il riscatto della donna, l'autenticazione, la paternità dell'opera cardine della Shelley, che non la vita della stessa. Un'opera tutt'altro che gloriosa, come la letteratura della sua protagonista, ma fieramente femminista. Viene il dubbio però se non fosse meglio, a questo punto, incentrare il racconto sulla Wollstonecraft, paladina del femminismo.