La mia storia con "La bicicletta verde" (che ancora si chiamava semplicemente "Wadjda"), comincia lo scorso Festival di Venezia (era in concorso nella sezione Orizzonti), quando per poco ho mancato la proiezione. Treno, vaporetto, imprevisti e arriviamo in ritardo. Nessuna replica in programma per il giorno seguente.
Più di tre mesi dopo ci riprovo. Il film, molto applaudito a Venezia, esce in poche sale italiane e una sola toscana: il Portico, che è un vecchio cinema di Firenze. Treno, molti imprevisti, quindi autobus e infine taxi, ma stavolta ce la facciamo.
Non avevo alcuna aspettativa sul pubblico, ma ugualmente mi sorprende. La sala verde - in tono, bisogna dirlo - è gremita, come non mi capitava di vedere da tempo (venerdì sera per "
Moonrise Kingdom" eravamo in otto), ma la media è abbondantemente oltre i sessant'anni. Un'anziana signora accanto a noi si rammarica di aver scordato il plaid, poi il film comincia e ogni volta che compaiono i sottotitoli li legge con amore al marito.
"Wadjda" è il primo lungometraggio di Haifaa Al Mansour, e il primo film in assoluto realizzato da una regista saudita. Che ha avuto il coraggio non solo di parlare dei quotidiani soprusi subiti dalle donne arabe, ma di girare il suo film proprio nella capitale Riyadh. Anche l'intero cast è saudita e le riprese del film sono il frutto di una collaborazione tra una troupe araba e una tedesca.
"Wadjda" (Waad Mohammed, al suo primo set) è una ragazzina di dodici anni, che sogna e non rinuncia a sognare, malgrado i limiti che le sono imposti dalla società. Gli uomini fin da bambini vestiti di bianco, le donne fin da bambine ricoperte di nero, coperte del tutto eccetto gli occhi, fin da quando diventano biologicamente donne. Durante il ciclo non possono toccare il Corano, se non con un fazzoletto, devono sempre tener la voce bassa, che non oltrepassi la porta, "possono" andare in spose anche a dodici anni, a un uomo che nemmeno conoscono.
Wadjda non ci sta. Indossa scarpe da ginnastica sotto il vestito, le tinge di nero quando la preside (Ahd Kame) le ordina di mettersi scarpe adeguate. Vuole comparire nell'albero genealogico della famiglia, riservato neanche a dirlo soltanto agli uomini. Mentre cammina continuamente si "sistema" il velo coprendosi e scoprendosi il capo, in un'insofferenza senza requie che la rende comica ma che al tempo stesso rende comico e assurdo quest'orpello con cui è costretta a convivere. Le sue non sono semplici provocazioni, Wadjda è centrata su se stessa e ha ben chiaro l'obiettivo da raggiungere: una bicicletta verde, nuova di zecca, per sfidare Abdullah e batterlo in velocità.
Nell'età in cui si comincia a perdere l'innocenza, Wadjda tira fuori il coraggio e non intende rinunciare, neppure quando è la madre a volerla dissuadere. Una ragazza che guida una bicicletta non può sposarsi, è una cosa che non ha senso, comunque la si voglia mettere. Semmai una bicicletta non può sposarsi.
L'unico problema per Wadjda restano i soldi e l'occasione di procurarseli è il premio messo in palio dalla scuola per la studentessa che meglio avrà imparato a recitare il Corano. Madjda si dispone a far ciò che non aveva mai fatto prima: studia con impegno e sfrutta tutte le sue capacità per prepararsi alla sfida, scende a compromessi con se stessa, ma non con il suo obiettivo.
Accanto alla figura centrale e positiva della protagonista, spiccano la figura della madre (Reem Abdullah), che alla fine decide di andare oltre i suoi retaggi e incoraggiare la figlia e quella del piccolo Abdullah (Abdullrahman Al Gohanim, primo set anche per lui) "innamorato" di Wadjda e della sua intraprendenza e sempre schierato dalla sua parte. Un ruolo secondario ma ugualmente importante - per il semplice fatto che si tratta di un uomo - nella realizzazione del sogno della piccola, è il negoziante che per tutto il tempo le tiene in serbo la bicicletta.
Il film di Haifaa Al Mansour non grida alla vergogna, o a qualche forma di vendetta. Né rivendica giustizia. Non è un film femminista, quanto piuttosto un film femminile, un atto d'amore verso il suo popolo. Sceglie l'ironia e la poesia per raccontare come possa essere difficile e umiliante la vita quotidiana di una donna o di una bambina in Arabia Saudita. Considera l'integralismo parte di un sistema che non è tutto da buttare, si fa portavoce della modalità più intelligente per realizzare i propri sogni, ovvero crederci e servirsi di ogni mezzo, compresi quelli che il tiranno mette a disposizione, senza mai cercare lo scontro.
La giovanissima Waad Mohammed interpreta il suo ruolo con spensieratezza, a tratti pienamente concentrata sulle battute, altre volte palesando l'agitazione del debutto. Ma questo anziché andare a discapito dell'efficacia scenica, si rivela un valore aggiunto, perché è come se mostrasse lo stato d'animo di ogni bambina, o donna, costantemente osservata e ripresa al primo passo falso.
L'Arabia Saudita è un mondo molto lontano dal nostro dove si ritrovano le stesse contraddizioni "globali" e consumistiche, ma a cui se ne aggiungono altre, antiche, avallate da un'interpretazione letterale o arbitraria dei testi sacri. La lettura e il canto dei versetti coranici intonato dalle ragazze della scuola risuona di una musicalità e di un'intima bellezza (per fortuna sono sottratti al tremendo doppiaggio italiano) che contrasta col monito di non lasciare il Corano aperto, che potrebbe sputarci il diavolo. Come a ribadire che non alla bellezza, o allo spirito si deve rinunciare, ma alla cieca stupidità umana.
Nella polverosa periferia di Ryad, fra edifici in rovina e in costruzione, il verde della bicicletta risalta come una possibilità di rinascita. Una speranza che Madjda, e Haifaa Al Mansour, e chissà quante altre portano dentro.
Mi chiedo perché non ci fossero adolescenti in sala, maschi o femmine, almeno un giovane. Io ormai non conto. Se prima mi ha sorpreso, poi mi ha fatto un certo dispiacere. Avrebbero potuto portarsi un nipote, queste signore e signori in sala, anche costringerlo poteva andar bene. Avrei potuto portarmi mia cugina.
Che invece va al cinema soltanto per la saga di Twilight e adesso che è finita chissà per cosa.
Senza nulla togliere ai vampiri o agli effetti speciali, credo che a volte siano le piccole cose, quelle semplici, sentite, ben fatte, a fare la differenza e contribuire al cambiamento.
Come ha detto appena uscita una che anche la voce poteva essere mia nonna: "Voleva solo una bicicletta in fondo, ma che male faceva?"
10/12/2012