I francesi Gustave de Kervern e Benoît Delépine fanno un cinema uguale a quello di nessun altro e, nel bene o nel male, meriterebbero di essere conosciuti più di quanto oggi non lo siano, da noi. Per riuscire nell'impresa, nell'epoca di un'asfissiante oligopolio nella distribuzione dei prodotti
mainstream, affidano a "Mammuth" referenze più qualificate rispetto al precedente
"Louise-Michel", giocando almeno due carte importanti: il passaggio in concorso all'ultimo festival di Berlino e soprattutto un cast stellare che affianca alla fidata Yolande Moreau un mattatore assoluto come Gérard Depardieu - un po' il Lebowski dei Coen un po' il
wrestler di Rourke - e un'orrorifica (in senso diegetico e non qualitativo) Isabelle Adjani. Tutti sforzi vani, se è vero che anche il secondo film degli autori ad arrivare in Italia è relegato in pochi cinema di periferia. Emblematico il caso della Moreau: fuori con due film (l'altro è
Séraphine), la si può ammirare soltanto in una trentina di sale in tutta Italia. Ed è un numero destinato a scendere molto presto, salvo miracoli.
Posto dunque che non lo vedrà nessuno, veniamo a "Mammuth", un
road movie più smaliziato di quanto l'apparenza
off di una fortografia che sgrana come un colabrodo e di personaggi e dialoghi sgangherati non lasci intendere. Le bizzarre peregrinazioni in moto del neopensionato alla ricerca dei contributi di trent'anni di impieghi saltuari lanciano uno sguardo sull'atomizzazione di un mondo del lavoro ormai completamente precarizzato, sull'atavica solitudine dell'uomo e sulle sue ridicole perversioni. Tra una grassa risata e un'altra, a partire da un carrello della spesa che fa danni nella strettoia creata da due auto parcheggiate, fino al romantico ricongiungimento del protagonista e della sua compagna contemporaneo a una rasatura d'ascella, la linea narrativa principale è presto abbandonata, con il dubbio che gli anche sceneggiatori de Kervern e Delépine non siano del tutto padroni delle deviazioni di traiettoria.
I limiti del progetto risiedono però, inoltre, nella quantistica struttura a mosaico, in un'asticella delle ambizioni spostata troppo in alto, in una demenzialità esibita e non sempre brillante. Presi uno ad uno i singoli episodi sono talvolta esilaranti, ma altre volte non vanno a segno: del racconto del primo incontro tra Mammuth e Catherine l'immaginario del film potrebbe fare tranquillamente a meno, l'inseguimento improvvisato alla ladra di telefonino è un po' patetico e del tutto inutile, la rivelazione del crimine della nipotina non aggiunge lo spessore drammatico che si prefigge. E in un'ora e mezza si rischia di annoiarsi, il film non cresce, anzi tende ad andare in calando. I registi, non paghi dell'efficace spaccato di una decedente società post-industriale, si premurano di spiegare un po' troppo, tanto che la memoria del trauma adolescenziale del protagonista appare non come la radice della sua stupidità cronica, ma come la mera giustificazione della presenza della Adjani, e in ogni caso come un corpo estraneo alla loro poetica. Che il lungo non sia il metraggio più adatto a de Kervern e Delépine? Il sospetto è molto forte.
29/10/2010