Li avevamo lasciati nel cuore dell'Africa i nostri amici dello zoo di Central Park e, dopo la ricomposizione del nucleo famigliare di Alex, la riscoperta da parte di Marty delle gioie del branco (unita ad un'opportuna rivalsa identitaria) e il coronamento del buffo amore tra Melman e Gloria, si era ingenuamente sospettato che potesse trattarsi di una sistemazione definitiva. Naturalmente non è così, perché gli spazi ampi e lussureggianti del Continente Nero saranno anche fascinosi, ma la nostalgia di casa è dura da vincere e un modellino di New York City non può certo restituire il piacere (?) della cattività in una caotica metropoli. Insoddisfatti degli agi nelle terre selvagge, i volubili protagonisti decidono di farsi aiutare dalla dissennata combriccola dei pinguini, impegnati a lucrare nel Casinò di Montecarlo, ma l'intervento inaspettato dell'agente DuBois - sordida e spigolosa Crudelia De Mon con i ricci di Edith Piaf - li costringerà a fuggire con un circo, che, dopo il tour Europeo, ha in programma proprio una tappa d'Oltreoceano.
Non c'è dubbio che la "DreamWorks" sia storicamente più legata alla reiterazione di schemi narrativi, fantasie tematiche, caratterizzazioni estreme dei personaggi rispetto alla "Pixar" e, in questo senso, non stupisce che anche "Madagascar 3" confermi quel culto del sequel, che la serie di "Shrek" ha contribuito a fondare. Ciò nonostante la linea di confine tra i due colossi dell'animazione è meno marcata di quanto appaia. Non si tratta, infatti, di una banale antitesi tra ispirazione e merchandising, tra la creatività variegata e multiforme del poetico Lasseter e la liturgia del commercio di casa Spielberg, quanto piuttosto di un differente approccio allo sviluppo narrativo, che può procedere dal generale al particolare o viceversa; detto in altri termini: dalla storia ai personaggi, oppure dai personaggi alla storia.
La "Pixar" costruisce lo spazio del racconto, ne olia la struttura con gli innesti di un'inesauribile fantasia, per poi popolarne gli anfratti narrativi con personaggi fiabeschi, modellati funzionalmente al contesto descritto. Si genera, così, una coerenza testuale interna che lega tra loro caratteri, sviluppi della trama e modalità narrative, creando un corpo unitario, che impedisce divagazioni e rende l'opera una sorta di unicum irripetibile. Non si può prendere Buzz Lightyear nella sua esilarante e passionale versione iberica in "
Toy Story 3" ed inserire la scena nel secondo capitolo della serie, mentre lo sketch della vecchietta invasata di "Madagascar" è del tutto contingente (e infatti è stato opportunamente riciclato nel secondo film).
Non è un caso che nei suoi venticinque anni di vita la Pixar abbia messo in cantiere solamente due sequel di "Toy Story", così come non stupisce che tra il secondo e il terzo capitolo siano intercorsi undici anni, necessari per costruire un plot soddisfacente in funzione di personaggi già definitivamente caratterizzati. Lo sfortunato ed insipido episodio di "
Cars 2", reso obbligato dall'irruzione del colosso "Disney" a capo della "Pixar", ha ribadito la refrattarietà a ripetersi di un meccanismo poetico-narrativo abituato a lavorare sull'unicità delle storie.
La "Dreamworks" imbocca la strada al contrario, parte dal fondo, disegnando un coro multiforme di protagonisti e comprimari e lo inserisce, in un secondo tempo, in uno dei molteplici universi narrativi possibili. La storia non è più il fondamento dell'architettura, lo scheletro di sostegno, ma un traballante corrimano, instabile ed imprevedibile, pronto a flettersi nelle più inattese direzioni (non è un caso che "
Dragon Trainer", coeso, equilibrato e così apparentemente discosto dallo schema, sia, per ora, il miglior lavoro della casa di produzione). Questo indirizzo, che nei precedenti capitoli del franchise non emergeva del tutto a causa dell'impianto moraleggiante che imponeva direzioni standardizzate al racconto, esplode con travolgente risalto nella nuova avventura dei nostri eroi.
Liberato dal soverchio di senso e dalla vuota ricerca di introspezione che gravava sui primi film, "Madagascar 3" si agita in un tripudio di assoluto, liberatorio nonsense, offrendo agli occhi uno spettacolo di luci, gesti, coreografie, in cui è inutile cercare qualsiasi significato che non sia il puro e semplice piacere dell'assurdo. D'altro canto qui non siamo di fronte ad un'opera con ambizioni poetiche, ma ad un'esperienza di pura e viscerale comicità, del tutto indifferente a quei meccanismi che legano l'umorismo alla riflessione e volta unicamente a squassare le pance degli spettatori con sguaiate ed irrefrenabili risate.
Così, mentre la trama ostenta sfacciata i propri buchi narrativi e le inverosimiglianze si rincorrono fino al parossismo, l'universo del racconto riscrive le leggi della fisica e trasforma l'esibizione circense in una travolgente fanfara psichedelica, magnificata dall'uso sapiente di un'efficace tecnologia 3D.
Stupisce che in un simile contesto di fantasiose assurdità sia proprio re Julien, il più ribelle e sconclusionato membro del gruppo, a perdere freschezza, troppo impegnato a fare la parodia di se stesso per convincere davvero nelle sue sfrenate esibizioni di egocentrismo. E se la divertente liaison tra il lemure e l'orsa "supermodel" si accompagna ad un gusto un po' impertinente (si pensi a re Julien che ruba l'anello del Pontefice nella trasferta romana), è pur vero che l'ingresso di Conrad Vernon, già autore del sequel di "Shrek", alla regia lasciava intravedere la gustosa possibilità di uno stravolgimento ben più insolente del racconto e l'avvio verso sani sberleffi politicamente scorretti. Purtroppo le trasgressioni rimangono all'acqua di rose, ma si sorride comunque ("Non avrei mai pensato di dirlo in territorio americano, ma il russo ha ragione!").
In definitiva, se il divertimento per i più piccoli è assicurato (come testimoniano le incontenibili risate dei pargoli durante la proiezione), gli adulti faranno forse più fatica ad orientarsi nel caotico vortice di incongruenze che satura la pellicola, peraltro penalizzata da un registro comico che, in più di un'occasione, sembra scimmiottare le "risate a denti stretti" della Settimana Enigmistica e che fatica a trovare una chiave farsesca capace di mettere d'accordo tutte le età.
Da segnalare, infine, la schizofrenia prorompente di una colonna sonora, che, sulle note (un po' invisibili) di Hans Zimmer, innesta una sfilza irriverente di brani delle più diverse tradizioni, da un'aria del "Rigoletto" e l'immancabile "Con te partirò" nelle scene romane a "Non, je ne regrette rien", intonata dall'agente DuBois in uno dei siparietti più divertenti ed insensati del film, fino al ritmo pop di "Firework" di Katy Perry, che accompagna le evoluzioni ginniche degli artisti circensi. Sullo sfondo si affaccia il rischio di un nuovo tormentone pronto a sostituire il conturbante "I like to move it" di re Julien: il terribile "Afro Circus".
24/08/2012