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recensione di Matteo Zucchi
5.5/10

Macbeth


"There’s no art

To find the mind’s construction in the face"

William Shakespeare, "Macbeth" I. IV 


"I thought I had seen the Deep
And opened Conspiracy Books
Crooks of time open
And shepherds hear voices
Heard voice of eyes"

Hypnopazūzu, "Christmas with the Channellers"


Il più apprezzato duo di registi del cinema statunitense contemporaneo si è già distinto per l’interesse nella messa in scena di uno dei racconti fondamentali di quello che si potrebbe definire il "canone occidentale", e di topoi della narrativa popolare altrettanto rappresentativi. La reinterpretazione di queste pietre miliari è prevedibilmente molto rielaborativa, ad esempio inserendo il nostos di un ignavo Ulisse negli Stati uniti meridionali degli anni 30, e testimonia così facendo la volontà dei due cineasti di fare realmente propri, e del proprio particolare portato culturale, i pilastri della letteratura (nell’accezione più ampia possibile) occidentale. Dopo aver messo in pellicola l’archetipo dell’homo faber europeo desideroso di conoscenza, ora tocca alla più esemplificativa narrazione sull’ambizione, la hybris e la cupio dissolvi dell’immaginario occidentale, la "Tragedia di Macbeth" scritta da William Shakespeare intorno al 1606 basandosi su alcune romanzesche cronache rinascimentali. Per concludere la lunga premessa non resta che chiarire fin da subito che la prima prova registica in solitaria del fratello maggiore Joel si rivela però un parziale passo falso, disperdendo molto del potenziale dell’adattamento coeniano della più breve, ma forse più significativa, delle tragedie del Bardo.


Fig. 1: Le "tre sorelle fatali": un palcoscenico nel palcoscenico

Fin dai primi fotogrammi della pellicola si può d’altro canto arguire che forse a Joel Coen, ancor più che il testo originale di Shakespeare, interessino i suoi precedenti adattamenti cinematografici, quantomeno i più celebri e citati, a partire da quello wellesiano del 1948 a quello di Roman Polanski di 23 anni dopo, passando per "Trono di sangue" di Kurosawa Akira. Dalle nebbie dell’indefinitezza (e della più stereotipica Scozia) si materializzano le prime immagini del film, in un bianco e nero fin troppo levigato, ricordando l’incipit del film di Orson Welles e mostrando dopo il breve prologo un misterioso e ambiguo essere che incarna singolarmente le tre "sorelle fatali", alla maniera di "Trono di sangue", e che mette in scena la sua previsione del futuro con una performance dalla marcata teatralità (fig. 1). Il tutto in uno spazio vuoto e sabbioso, allusione alla spiaggia su cui compiono il loro rito le tre streghe nella prima sequenza del "Macbeth" polanskiano. Non sorprende un simile trattamento della materia shakespeariana alla luce della nota cinefilia del regista e dell’importanza che l’elemento metacinematografico ha sempre avuto all’interno della produzione dei fratelli Coen, promettendo così fin dall’incipit di quest’ennesimo "The Tragedy of Macbeth" un continuo e consapevole riferirsi ai propri precursori e alla storia degli adattamenti cinematografici di Shakespeare. Ciò che invece può stupire, arrivati a questo punto della pellicola e della recensione, è la scarsa cinematograficità del film di Joel Coen, il quale ricorda più il teatro filmato delle prime versioni in pellicola delle opere del Bardo o degli adattamenti televisivi di metà XX secolo che le interpretazioni dei registi che l’hanno preceduto.


Fig. 2: "Macbeth" 2015 vs. "Macbeth" 2021: estetismi al confronto

Da questo punto di vista la pellicola si pone specularmente rispetto all’ultimo "Macbeth" cinematografico di un certo rilievo, il violento blockbuster di Justin Kurzel del 2015: Coen asciuga il pathos della tragedia in interpretazioni attoriali di studiata teatralità, l’espressività visiva della satura palette di quel film con un bianco e nero sontuoso ma troppo opaco per avvicinarsi al para-espressionismo di Welles (fig. 2) e l’irresoluta polisemia di spunti e interpretazioni personali che era croce e delizia della pellicola con Michael Fassbender e Marion Cotillard in un'adesione letterale non solo al testo shakespeariano, com’è ormai lecito attendersi, ma anche alle convenzioni declamatorie tipiche della tradizione teatrale settecentesca dell’opus shakespeariano. Non si intende certo accusare quest’ultima versione della tragedia di pigrizia o scarsa personalità, quanto segnalare come operi poche ma forti scelte interpretative estetiche e narrative che non vengono poi sostenute con efficacia dagli altri elementi della pellicola. Ad esempio, il Macbeth piuttosto granitico e badass, a eccezione dei dubbi iniziali di rito, di Denzel Washington attraversa quasi tutto il suo percorso esibendo determinazione e arroganza, non vacillando neppure nel confronto finale con MacDuff, per poi apparire confuso e smarrito solo dalla momentanea perdita del simbolo del suo potere, la corona del fu re Duncan. Il valore simbolico di quest’oggetto, per lui tanto importante da determinarne la sconfitta, non viene costruito adeguatamente nel corso della pellicola, evidenziando un approccio alla tragedia piuttosto superficiale a livello di scrittura, cosa che sorprende proprio alla luce del pedigree dell’autore dietro la macchina da presa.


Fig. 3: "Macbeth" 1948 vs. "Macbeth" 2021: architetture astratte e teatralità sfacciata

L’insistita teatralità che è evidentemente la chiave di lettura privilegiata di questo "Macbeth" impedisce che l’onnipresente mancanza di realismo, dai recitativi declamati in totale violazione di qualsiasi concetto di temporalità realistica del cinema alle ambientazioni astratte e sfacciatamente astoriche (un ulteriore omaggio agli adattamenti shakespeariani di Orson Welles, dove la ragione di ciò stava però spesso nella scarsità del budget, oltre che nell’inventiva del cineasta) (fig. 3), sia considerata un difetto evidente del film ma non che risulti un comodo escamotage per proporre un adattamento superficiale, e nondimeno a tratti efficace, della tragedia. La manifesta superficialità che può essere presa a sua volta come chiave di volta interpretativa del film, rappresentata suo malgrado dal levigato bianco e nero della fotografia che riduce la profondità di campo e appiattisce i soggetti sui teatri di posa in cui si muovono, conduce però Joel Coen a tentare un colpo di reni finale e a caricare di pathos e azione una pellicola altrimenti apatica e anemica solo laddove questo risulta più semplice, quasi scontato. Quando si arriva all’atto finale di "Macbeth" la regia si svincola dalla rigidità dei piani ravvicinati dei recitativi (incapace però di concretizzare la claustrofobia che era stata del "Macbeth" televisivo di Tarr Béla, nonostante il formato 4:3)  e degli statici campi lunghi che contestualizzano spostamenti e scene di gruppo (fig. 4), così come dalla resa pedissequa del testo originale e dal minimalismo espressivo della colonna sonora e della recitazione, e allora il cinema rifà la sua apparizione nel film di Coen, tradendo così il limitato controllo su una materia così trattata e così trattabile.


Fig. 4: il minimalismo registico nel "Macbeth" di Coen

Cercando di aggiornare alle sue personalissime e suggestive scelte estetiche la violenza e la visceralità (e la durata) del confronto finale del "Macbeth" del 1971 (fig. 5), pur senza puntare alla radicalità del redde rationem per cui optò a suo tempo Kurosawa, Coen realizza un finale che vorrebbe essere patetico (per non dire epico) ma che, proprio in virtù delle scelte narrative e stilistiche del resto della pellicola, pare fuori luogo e fuori fuoco, suggellando la pellicola nella sua irresolutezza. Per questa ragione "The Tragedy of Macbeth" non può indulgere nella circolarità che faceva risprofondare i protagonisti del film di Welles e i loro "inutili" gesti pieni di "rumore e furore" nelle nebbie dell’indefinitezza che è propria del mito e del tempo astorico che in fin dei conti è quello del "Macbeth" inteso come racconto morale e archetipico. No, il tempo, e la realtà, in cui si muove il "Macbeth" del 2021 è spezzato, "fuori di sesto", e quindi non può risolversi in sé stesso. Può solo collassare in una conclusione che appare incoerente rispetto al resto della pellicola e quindi esibire la propria natura sfilacciata, finendo col raccontarci una storia che, in effetti, forse "non significa nulla". Attraverso l’adesione quasi sempre letterale al testo shakespeariano Joel Coen è riuscito a realizzare un’interpretazione del "Macbeth" che si può effettivamente chiamare "post-moderna", spesso più di quanto lo siano ardite modernizzazioni o rivisitazioni in chiave contemporanea, in virtù della sua frammentazione stilistica e del suo insito, e dispersivo, nichilismo che pare quasi dare ragione al delirante, o vaticinante, Macbeth del celebre monologo.


Fig. 5: "Macbeth" 1971 vs. "Macbeth" 2021:
"my soul is too much charged/ with blood of thine already"

Il problema, e soprattutto il dispiacere, stanno nella probabile involontarietà di questo meccanismo, frutto più del portato del cinema del suo autore e della difficoltà di far collimare così tanti riferimenti e così tanti stilemi, e così differenti. Non resta che attendere il prossimo ritorno al castello di Dunsinane e l’apparizione dal nulla di tre (?) megere e che conducano ancora una volta a "piccoli passi verso l’ultima sillaba del tempo annotato", a testimonianza dell’immortalità del "Macbeth" e della sua centralità, ineluttabile e imperscrutabile, all’interno del "canone occidentale".


05/02/2022

Cast e credits

cast:
Denzel Washington, Frances McDormand, Brendan Gleeson, Corey Hawkins, Harry Melling, Kathryn Hunter, Sean Patrick Thomas, Bertie Carvel


regia:
Joel Coen


titolo originale:
The Tragedy of Macbeth


distribuzione:
Apple Tv+


durata:
105'


produzione:
A24, IAC Films


sceneggiatura:
Joel Coen


fotografia:
Bruno Delbonnel


scenografie:
Stefan Dechant


montaggio:
Lucian Johnston, Reginald Jaynes


costumi:
Mary Zophres


musiche:
Carter Burwell


Trama
Fedele adattamento del dramma "The Tragedy of Macbeth" di William Shakespeare, detto anche "la tragedia dell'ambizione".