Sono spazi stretti quelli in cui si sviluppano le dinamiche raccontate da Saeed Roustaee (classe 1989) nel suo terzo lungometraggio. Prima una fabbrica, in cui ci sono centinaia di persone ammassate - un incipit simile ha aperto "I compagni" di Monicelli - poi una manifestazione, in cui altre centinaia di persone protestano per i mancati salari e le condizioni igieniche assenti nei contesti lavorativi. E ancora, altre persone accalcate in uno spazio di appena cento metri quadrati: sono Leila, i suoi fratelli e i loro genitori.
Il regista iraniano insiste sull’idea di volersi muovere in ambienti chiusi - quasi claustrofobici - per consentire allo spettatore di trovarsi nella stessa condizione in cui vive quella gente: «Non hanno privacy. Non riescono a prendere le distanze l’uno con l’altro. Per questo li riprendo spesso insieme in inquadrature da vicino. Non riescono ad avere una visuale più ampia dell’altro. Vedono da molto vicino l’altro. Non hanno spazio privato, nessuna intimità, e questo li mette in una situazione di tensione e difficoltà. La stessa tensione che volevo restituire nel film.», ha raccontato. Da una folla indefinita di persone (tutte potenzialmente caratterizzabili, perché tutte in condizioni simili), l’indagine si focalizza su una famiglia che si regge sulle spalle - letteralmente - di Leila, che vorrebbe dare ai suoi fratelli una possibilità per "scrollarsi da dosso" povertà e isterismi. Si alternano, infatti, momenti di nevrosi (in cui inveiscono uno contro l’altro) ad altri di tregua, più che di riappacificazione. È proprio la precarietà - secondo Leila - a rendere isteriche le persone. A far perdere la fiducia e a far sentire ignoranti, regrediti. Lei, però, si oppone a questo ristagnare, proponendo una soluzione che non solo potrà dare loro l’occasione di slegarsi da un’etichetta che pesa (soprattutto e ancora sulle sue spalle, come vediamo dalle prime scene in cui ci viene presentata mentre fa una terapia per i dolori alla schiena) ma di condividere insieme il potenziale successo.
«Avvia un’attività con loro. Non abbandonare i tuoi fratelli», dice (piangendo) Leila a uno di loro, quello che ritiene possa assumersi la responsabilità di prendersi cura anche degli altri. Sicuramente, il modo in cui viene rappresentato lo spazio influisce - da subito - sulla caratterizzazione dei personaggi, come sulla comprensione dell’intreccio. Il fatto che sia chiuso, ristretto e disfunzionale mette in luce la condizione di Leila non solo in relazione ai suoi fratelli che lottano contro l’indigenza, ma anche in riferimento ai loro genitori, che sono la causa (probabilmente) di un’infelicità pregressa. Il padre è ossessionato dalle tradizioni, dai nomi (quelli maschili), dalla possibilità di diventare il "prescelto"; di essere, cioè, il padrino al matrimonio del primogenito di una famiglia potente che, però, non lo ha mai considerato. È più importante sentirsi acclamato e idolatrato, anche da persone che non sono i suoi figli, anche ignorando le loro necessità. La madre, poi, incoraggia questo atteggiamento, restando indifferente soprattutto nei riguardi di Leila, in quanto femmina.
Ce ne sono stati altri, di fratelli, prima di quelli di Leila. Quelli di Rocco (attraverso i quali Luchino Visconti ha voluto omaggiare il romanzo di Thomas Mann e lo scrittore Rocco Scotellaro) impegnati in una lotta simile, in cerca di un lavoro e - soprattutto - di un riscatto sociale, in una Milano che respinge, rifiuta e discrimina. Nella stessa città si svolge "Il ponte della Ghisolfa", raccolta di diciannove racconti pubblicata da Giovanni Testori nel 1958, in cui viene descritto il mondo della periferia milanese, popolato di poveri diavoli che tirano la carretta in fabbrica o a bottega ma anche di sfaccendati pronti a tutto. Immediato, poi, è il legame tra Saeed Roustaee con la tradizione iraniana che ha sempre privilegiato un cinema di forte responsabilità, abile nel mettere in scena classi sociali contrapposte e incapaci di comunicare. Kiarostami in prima linea, seguito da Farhadi (tra l’altro, Leila è la stessa de "Il cliente" e uno dei fratelli ha recitato in "Una separazione"), Makhmalbaf e - naturalmente - da Panahi, che mette lo spettatore alla prova della verità, e mette alla prova anche se stesso, andando al di fuori di certi "confini".
È la rappresentazione (per certi versi, fortemente teatrale) di una guerra, quella che realizza Roustaee. Leila combatte - inizialmente da sola ma per tutti - e si espone; non si rassegna e non volta mai lo sguardo altrove: guarda la paura negli occhi (come quando viene incaricata di fare le foto prima di andare al fatidico matrimonio) e - addirittura - sorride. Perché Leila conosce i "termini" del conflitto, ed è consapevole che ci siano - come possibilità - solo la vita o la morte. Così come il matrimonio o il negozio. Ed è tutta una questione di scelta. La sua dedizione verso i fratelli (e non verso la famiglia) è lucida e consapevole e scaturisce dalla certezza che l’unico valore etico assoluto siano l’uomo e la sua dignità. Roustaee sostiene un delicato equilibrio di contrari, muovendosi tra l’archetipo della tragedia greca e l’opera moderna capace di fare emergere le complessità di un intero Paese. Leila non si sacrifica, ma si impone come guida. Sceglie di incanalare tutto il potenziale, i desideri e la voglia di riscatto dei suoi fratelli e accettare sia colpe che conseguenze.
cast:
Saeed Poursamimi, Navid Mohammadzadeh, Taraneh Alidoosti
regia:
Saeed Roustayi
titolo originale:
Baradaran-e Leila
distribuzione:
I Wonder Pictures
durata:
165'
produzione:
Iris Film
sceneggiatura:
Saeed Roustayi
fotografia:
Hooman Behmanesh
scenografie:
Mohsen Nasrollahi
montaggio:
Bahram Denghan
costumi:
Ghazale Motamed
musiche:
Ramin Kousha