In un'epoca in cui la crisi delle sale e la disaffezione delle generazioni più giovani ha spinto anche chi si professa cinefilo a rispolverare i discorsi sulla morte del cinema, dubitando sulla capacità di incidere nelle nostre esistenze rivelandone le complessità meno evidenti, un film come "La zona d'interesse" riporta indietro le lancette della Storia mettendo in qualche modo lo spettatore nella stessa condizione di quei fortunati che si trovarono ad assistere alle proiezioni dei primi cortometraggi dei Fratelli Lumière. In un tempo di sensi anestetizzati e coscienze sopite, il film di Jonathan Glazer prende in contropiede la vista e lo stomaco, raccontando l'Olocausto come ancora non si era mai visto sullo schermo. Lungi dall'essere un esercizio di stile, "La zona d'interesse" restituisce alla forma la sua caratteristica principale, ovvero quella di accrescere il senso del contenuto.
Abbracciando il concetto di indicibile relativo alla tragedia della Shoah, Glazer fa la cosa più semplice e allo stesso tempo più difficile, celando il misfatto agli occhi dello spettatore e in parte a quelli degli stessi personaggi, attraverso il muro di cinta che separa il campo di concentramento di Auschwitz dallo spazio in cui la famiglia del comandante della guarnigione vive come niente fosse, assorbita dalla bellezza bucolica del paesaggio e viziata dai privilegi di una posizione lavorativa di prestigio, quella del colonnello Rudolf Höss, in cui lo sterminio non implica nessuna questione morale e dove l'unico problema è quello di elevare al massimo l'efficienza dei carnefici e dello loro procedure logistico-matematiche.
Per mettere in scena l'orrore, Glazer non spreca neanche un minuto dei 105 a sua disposizione. Prova ne siano i titoli di testa, rappresentati in toto dall'intestazione del film, destinata a scomparire un poco per volta dallo schermo, sopraffatta dai rumori della "morte al lavoro" e assorbita dal buio di una dissolvenza in nero che, insieme al finale altrettanto astratto, dominato com'è dall'improvviso presagio della fine che assale Höss, inchioda l'incoscienza dei personaggi all'abisso delle proprie anime.
La differenza fra bene e male diventa così una questione legata alla dicotomia dello sguardo, laddove l'invisibile smette di essere tale quando si rivolge alla vita del carnefice, immersa in una fotografia surreale, tanto nitida e pulita quanto monocorde e glaciale, capace com'è di far diventare la bellezza vuota e piatta della sua illuminazione sinonimo della crudele prosaicità di cui si colora il quotidiano della famiglia Höss, predisposta per natura a non farsi toccare da quanto accade al di là del muro.
Scegliendo di raccontare gli aguzzini e non le loro vittime, Glazer compie una scelta di campo che riguarda l'oggi, ragionando sulla banalità del male attraverso un identikit in cui il paradosso della famiglia tedesca, incurante dell'abominio che le sta accanto, moltiplica all'ennesima potenza quello dell'Occidente nei confronti delle guerre che del tutto o in parte ha contribuito ad accendere.
Come "Il figlio di Saul", anche il film di Glazer fa del fuoricampo un elemento fondante. A differenza di László Nemes, però, Glazer sceglie un punto di vista opposto. Tanto quello del regista ungherese era il risultato di una ricognizione interna al personaggio, quanto quello del regista inglese è il risultato di un'osservazione isolata ed esterna al contesto. Se "Il figlio di Saul" traeva forza da una narrazione febbrile e allucinatoria, "La zona d'interesse" propone allo spettatore un'osservazione raggelata ed entomologica, capace di resistere all'impassibilità dei personaggi per cogliere l'attimo in cui la normalità diventa affezione patologica. Debitore nei temi e nella forma del Michael Haneke de "Il nastro bianco", "La zona d'interesse" deve parte della sua riuscita a un dispositivo che da qui in avanti potrebbe costituire un compendio pratico da mostrare agli studenti per far comprendere la bellezza e la potenza del linguaggio cinematografico. Valga per tutti il modo in cui Glazer restituisce dignità a campo e controcampo, altrove segnale di povertà registica (lo aveva già fatto Paul Thomas Anderson con "Licorice Pizza"), qui determinante nel restituire la vertigine derivata dall'orrore del quotidiano, quando, dopo una serie di sequenze girate secondo un unico punto di vista e volte a introdurci nell'ovattata quotidianità della famiglia Höss, a spalancare le porte dell'inferno è l'uso improvviso del campo opposto all'immagine precedente, mostrandoci la prospettiva della fornace del campo di concentramento, visibile in tutta la sua atroce abiezione dietro le spalle del padrone di casa. È la prima volta che succede e tanto basta a cambiare la storia del film, che da quel momento non potrà più mondarsi dal peccato originale di quell'immagine.
Adattamento cinematografico del romanzo omonimo del 2014 scritto da Martin Amis, "La zona d'interesse" è stato presentato in concorso al Festival di Cannes 2023, dove ha vinto il Gran Premio della Giuria. Prodotto dalla A24, il film di Glazer è atteso nelle sale il 25 gennaio 2024, distribuito da I Wonder Pictures. Da vedere e rivedere, per non dimenticare.
cast:
Christian Friedel, Sandra Huller
regia:
Jonathan Glazer
titolo originale:
The Zone of Interest
distribuzione:
I Wonder Pictures
durata:
106'
produzione:
Extreme Emotions, Film4 Productions, House Productions
sceneggiatura:
Jonathan Glazer
fotografia:
Lukasz Zal
scenografie:
Chris Oddy
montaggio:
Paul Watts
musiche:
Mica Levi