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recensione di Antonio Pettierre
8.0/10

In una stanza di una casa fatiscente un uomo getta un fagotto, si presume un corpo, in un buco ricavato nel pavimento. Accende un fiammifero e dà fuoco al tutto. In campo lungo, mentre l’uomo procede in avanti, è inquadrata una casa isolata che sta bruciando in mezzo alla campagna brulla e scabra.
Ha inizio così “La fiera delle illusioni”, l’ultimo lavoro di Guillermo del Toro, con una scena tra l’onirico e il metonimico, in assenza di dialogo in cui i rumori del corpo spostato, del legno che arde, dello sguardo in macchina del protagonista, smarrito e atono, sono gli elementi anticipatori dell’umore che pervaderà l’intera trama. Così come la stanza in fiamme ritorna più volte durante la narrazione come incubo del protagonista Stanton "Stan" Carlisle (Bradley Cooper), rifugiatosi in un gruppo di giostrai.

Nel film, tratto da “Nightmare Alley”, scritto da William Lindsay Gresham e pubblicato nel 1946, del Toro effettua un corposo lavoro di adattamento di un romanzo complesso con sub plot e descrizioni del mondo dei carnival, le fiere dei freaks e delle meraviglie che giravano la provincia statunitense più povera e superstiziosa, e con un approfondimento psicologico del protagonista con i traumi subiti dall’abbandono materno, l’uccisione dell’amato cane Gyp, il difficile rapporto con in padre. E soprattutto l’arrivismo senza scrupoli di Carlisle, pur di accumulare potere e denaro attraverso il mentalismo truffaldino, fino a diventare pastore di una religione spiritista fondando una chiesa e circuendo donne afflitte dalla perdita dei loro cari con la promessa di poter interloquire con le anime dei defunti. Il romanzo, poi, è diviso in vari capitoli rappresentati ognuno da una carta dei tarocchi, che diventano la cifra del fato demiurgo, con il destino già prefigurato per ognuno di noi.
Tutti temi che orbitano negli interessi di del Toro che però questa volta ha espunto totalmente quello religioso, influenzato dall’educazione cattolica della nonna presente in molto suo cinema, e ha mantenuto, pur se in piccola parte, quello dei tarocchi, in ricordo della madre appassionata lettrice delle carte in questione*.

Scritto insieme alla moglie Kim Morgan, “La fiera delle illusioni” è perfettamente inserito all’interno del canone deltoriano per temi e stile. Abbiamo la collocazione storica precisa: siamo del ’39 quando Carlisle lavora alla fiera e viene esplicitamente rivelato da Clem Hoately (Willem Dafoe) quando avvisa che in Europa Hitler ha invaso la Polonia; così come quando Carlisle si sposta in città, insieme alla giovane moglie Molly (Rooney Mara), ed è conosciuto come “Il Grande Stanton” interpretando spettacoli serali di mentalismo, e scopriamo che siamo nel ’41 e gli Stati Uniti entrano nel secondo conflitto mondiale.
Questi due episodi possono apparire insignificanti, ma oltre a essere una caratteristica del cinema del regista messicano, quella di prendere ad esempio i conflitti bellici come grande produttori di Male – pensiamo all’ambientazione durante e dopo la Guerra civile spagnola, struttura portante narrativa in “La spina del diavolo” e ne “Il labirinto del Fauno” o come punto di partenza per le vicende di “Hellboy” – le due brevi scene preannunciano allo spettatore il destino del protagonista. Così quando Clem parla di Hitler, sta mostrando la galleria degli orrori personali a Stanton nella sua tenda: la teratologia messa in scena come in un piccolo museo, con al centro un neonato dotato di monocolo frontale che appare seguirti con il proprio sguardo acquatico. In questo senso, con un parallelismo metaforico, Stanton è come se fosse un frutto germinato dalla stessa pianta del Male, persona priva di scrupoli, pronto a uccidere e provocare dolore per raggiungere la grandezza personale, ingannando, sfruttando, manipolando e anche eliminando fisicamente, se questo serve a raggiungere lo scopo. La seconda scena avviene nello studio della psicologa Lilith Ritter (Cate Blanchett), quando Stanton si mette d’accordo con lei per truffare un ricco imprenditore. Il lancio del giornale con i titoli del conflitto in prima pagina e un breve scambio di battute prelude alla disfatta di Stanton, all’inganno che subirà dalla Ritter.

L’insistenza nella prima parte della messa in quadro delle mostruosità nella fiera e gli omicidi efferati, tangenti lo splatter, nella seconda parte sono altri elementi tipici del cinema di del Toro, qui messi in scena non solo per meravigliare lo spettatore, ma soprattutto come corollario necessario a un confronto diretto con i veri mostri: gli esseri umani. Del resto, sia Clem sia Stanton sono più mostruosi dell’uomo bestia oggetto di spettacolo serale nella fiera. Povero derelitto alcolizzato e drogato, circuito e sfruttato brutalmente da Clem.
Altre due sequenze significative in “La fiera delle illusioni” le abbiamo in questo contesto. La prima quando Stanton, appena arrivato alla fiera, aiuta a riprendere il poveraccio costretto a essere una bestia fuggito dalla gabbia in cui è rinchiuso. Stanton si inoltra nella galleria dell’orrore e attraversa porte con volti diabolici e mostruosi, ma soprattutto un corridoio tubolare con linee curve colorate e psichedeliche. All’uscita trova l’uomo bestia e per la prima volta dall’inizio del film sentiamo la voce di Stanton mentre si rivolge all’uomo. In questo senso si può compiere un parallelismo con i lunghi corridoi e la porta dell’ufficio-appartamento della Ritter che Stanton percorre nella penombra: in entrambi i casi il protagonista si confronta con un antagonista che sottovaluta nella sua presunzione di controllo totale.

Ci sarebbe da dire molto altro sulla ricchezza simbolica e metaforica delle sequenze di “La fiera delle illusioni”, ma ci fermiamo qui. Aggiungiamo a postilla che del Toro ha eliminato tutta la parte dei rapporti familiari di Stanton presenti nel romanzo di Gresham, preferendo focalizzarsi sul personaggio come attante in confronto con gli altri all’interno della struttura visiva che il regista ha costruito. Il confronto con il padre, messo in scena nella prima sequenza e reiterato con immagini oniriche durante lo sviluppo narrativo, è la messa in scena del malessere radicato nell’inconscio del personaggio, del nucleo nero che lo brucerà dall’interno fino alla fine.

“La fiera delle illusioni” ha avuto un primo adattamento nel ’47 diretto da Edmund Goulding, voluto fortemente dalla star dell’epoca Tyrone Power a cui era piaciuto moltissimo il romanzo di Gresham. Tra le due pellicole c’è appunto la fonte da cui è tratto, ma non potrebbero essere più diverse. Se la prima è molto legata all’icona popolare di Power e in una struttura narrativa più aderente al romanzo con un sottotesto pedagogico e moralistico con un happy end voluto dal produttore Darryl F. Zanuck, del Toro compone un’opera, come abbiamo detto, del tutto personale e molto più legata alla rivisitazione degli stilemi del noir rispetto a una preponderanza del melodramma nella pellicola di Goulding.

Oltre alla femme fatale interpretata con lucida malvagità dalla Blanchett, elemento caratterizzante è l’utilizzo dei colori con una palette dai toni caldi e avvolgenti come il rosso e l’ocra spalmati nel buio degli interni e nella notte degli esterni, illuminando la scena con luci intradiegetiche come le lampade nelle camere, quelle dei corridoi oppure i fari dei tendoni e dell’illuminazione pubblica delle strade della campagna e della città.
La seconda parte, poi, tutta girata in un ambiente metropolitano, riporta anche a un lavoro filologico prodotto dai costumi e dalle scenografie, che, all’interno dell’economia visiva, sono determinanti per la riuscita dell’opera. Coadiuvato in questo dalla fotografia di Dan Laustsen, storico collaboratore di del Toro - “Mimic”, ma soprattutto direttore della fotografia di “Crimson Peak” e de “La forma dell’acqua” – che dipinge con la luce la messa in scena con sfumature pittoriche che richiamano la materialità del buio e della luce dei dipinti olandesi del Seicento. Così come il neon dell’insegna della fiera, nella prima parte del film, perennemente accesa di giorno e di notte appare come una citazione allo stesso tempo vintage e moderna degli esperimenti digitali coppoliani di “Un sogno lungo un giorno”. Ma se lì era un “sogno” del regista italoamericano, qui siamo all’interno di un pieno “incubo” di chiara matrice deltoriana.

“La fiera delle illusioni” appare così come, forse, il film più maturo e adulto di del Toro e in qualche modo “sperimentatore” su un genere, quello noir, in cui innestare ossessioni e stilemi di un autore con una drammatica visione dell’uomo e del mondo.

*Charlotte Largeron, Guillermo del Toro. Des hommes, des dieux e des monstres, Rouge Profond, 2013, p. 13.


29/01/2022

Cast e credits

cast:
Bradley Cooper, Cate Blanchett, Toni Collette, Willem Dafoe, Richard Jenkins, Rooney Mara, Ron Perlman, David Strathairn


regia:
Guillermo Del Toro


titolo originale:
Nightmare Alley


distribuzione:
Searchlight Pictures


durata:
150'


produzione:
Double Dare You, Searchlight Pictures


sceneggiatura:
Guillermo del Toro, Kim Morgan


fotografia:
Dan Laustsen


scenografie:
Tamara Deverell


montaggio:
Cam McLauchlin


costumi:
Luis Sequeira


musiche:
Nathan Johnson


Trama
Siamo alla fine degli 30. Il giovane Stan Carlisle approda per caso in una fiera e viene assunto come manovale e imbonitore dall’amministratore. Impara l’arte della manipolazione mentale facendo da aiutante a Zeena e seduce la giovane Molly. Pieno di ambizione lascia tutto insieme a Molly. Lo ritroviamo due anni dopo che insieme fanno spettacoli di mentalismo, sfruttando la credulità della gente. L’incontro con la psicologa Ritter lo trascinerà in un piano senza scrupoli per aggirare ricchi pazienti della dottoressa ed estorcere del denaro. La donna però si rivelerà più scaltra e spietata di Carlisle.