Introduzione
Seijun Suzuki è un artista ricco di contraddizioni, la prima delle quali è quella di non considerarsi un artista. A seconda del suo interlocutore, si pone come un uomo qualunque che fa il proprio mestiere o un profeta che sa vedere nel futuro. Ha intrapreso esperimenti radicali nella forma filmica, e li definiva semplicemente tentativi di realizzare opere d'intrattenimento. La sua immancabile modestia – è sempre solerte nel valorizzare le idee dei collaboratori e mettere in secondo piano le proprie – riporta alla memoria registi egualmente umili, più vecchi di una generazione, come John Ford e Howard Hawks. I suoi film, invece, sono stati resi popolari a livello internazionale da un pubblico di almeno una generazione più giovane della sua. Ha realizzato opere commerciali, ma in qualche modo è diventato l'icona di una controcultura di cui non poteva e non riusciva a far parte.
Seijun Suzuki, ovvero il folle, l'imprevedibile, l'irriverente, l'anarchico, il principe dell'inexpectatum, il manipolatore del tempo e dello spazio, nasce nel 1923 in un'ancora sonnolenta Tokyo, che entrava in un'epoca di radicali trasformazioni destinate a cambiarne il volto per sempre: il terremoto che tre anni dopo scuote la regione del Kanto, la crisi finanziaria del 1927, i contraccolpi della recessione mondiale del 1929, la guerra in Manciuria e quella nel Pacifico. È soprattutto quest'ultima esperienza a segnare l'appena diciottenne Seijun. Per ben due volte, infatti, la nave sulla quale era imbarcata questa giovane recluta viene affondata ed egli si salva miracolosamente, maturando così da un lato un'anestetica indifferenza al dolore e un freddo nichilismo verso la vita, antidoti alla brutalità della guerra, dall'altro una profonda diffidenza nei confronti del potere e dell'autorità, oltrechè un disincanto verso i proclami etici e patriottici[1]. L'epoca in cui Seijun era nato non è tuttavia contraddistinta solo dal militarismo e dalla trasformazione socioeconomica del Giappone, ma anche dai fermenti culturali nati dall'apertura alla cultura occidentale: le cosiddette epoche Taisho e Showa, con il Modernismo (Modanizumo) e il movimento letterario della Shinkankakuha (Nuova Sensibilità), teso a cogliere gli aspetti apparentemente inesprimibili del sentire umano e che disdegna lo stile narrativo tradizionale, troppo documentaristico e scontato. Tuttavia c'è dell'altro: nazionalismo, socialismo, femminismo, psicanalisi direttamente o indirettamente forniscono nuovi modelli di riferimento ibridando il panorama culturale nipponico.
Nel 1926 vi sono in Giappone 1056 cinema, in cui si assiste anche a spettacoli occidentali che, durante gli anni della guerra, cadranno tuttavia sotto l'occhiuta vigilanza della censura. Nell'alveo del Modernismo si diffonde anche un movimento artistico, detto Ero-Guro Nansensu[2], che combina l'elemento bizzarro e quello erotico nel romanzo d'investigazione. Il premio Nobel Kawabata Yasunari fa riferimento al fenomeno culturale in un suo libro poco noto[3] in cui descrive "erotismo e nonsense e velocità e humour fumettistico d'attualità e jazz song e gambe di donne…". E a leggerlo ci pare già di trovare gli ingredienti di non pochi dei film di Suzuki.
Nel dopoguerra, fallito l'accesso all'università, Seijun frequenta una scuola di cinema e si avvia alla carriera di regista. Sempre affascinato dall'epoca Taisho, che gli ispirò la trilogia uscita tra il 1980 e il 1991[4], è tuttavia negli anni 60, altro periodo tumultuoso, che giró la maggior parte dei suoi film. In questo decennio il confine tra arte alta e bassa stava diventando sottile: gli artisti d'avanguardia esponevano le loro opere nei grandi magazzini. I B-movie di Suzuki – che al tempo non erano considerati affatto cinema intellettuale – divennero oggetto di culto tra i cineclub gestiti da studenti, i cui membri erano coinvolti nelle proteste politiche di massa dilaganti in quel decennio. Eppure Suzuki è qualcosa di più di un simbolo dei tumultuosi anni sessanta: è il tipo di artista che da un lato incarna il suo tempo, dall'altro ne prende le distanze, assorbendone le energie e canalizzandole in un'estetica squisitamente individuale. Le lacune ammesse dallo stesso Suzuki in merito alle sue conoscenze di storia del cinema (i film stranieri erano in parte banditi quando era ragazzino) gli hanno concesso la libertà di sperimentare con il mezzo cinematografico, attingendo a quello che il critico Shigehiko Hasumi[5] chiama "entusiasmo suzukiano", che gli conferisce uno status tutto suo nel panorama della storia del cinema.
Seijun Suzuki
Quando Seijun Suzuki fu sommariamente licenziato dagli studi Nikkatsu, nel 1968, dopo aver diretto qualcosa come quaranta film in dodici anni, fece ricorso. Il suo licenziamento scatenò proteste pubbliche da parte non solo dei colleghi dell'industria cinematografica, ma anche di membri delle associazioni universitarie conosciute come Cineclub, e da spettatori comuni, che insieme trasformarono Suzuki in un eroe della controcultura anarchica del Giappone, costituita da artisti e studenti estremisti. Suzuki non era un autore di particolare rilievo e non è facile immaginare un regista in grado di fomentare dimostrazioni di massa per essere stato cacciato da una major. Il suo compito era quello di realizzare B-movie che fossero programmati in doppio spettacolo con i film più prestigiosi della casa di produzione. Non era nemmeno conosciuto come regista politico. A differenza di Nagisa Oshima (che era uno dei trascinatori delle proteste in favore di Suzuki)[6] e Shoei Imamura, il cui status di indipendenti forniva una tribuna per esprimere il loro sdegno politico, il suo percorso fin lì era stato segnato da sceneggiature prefabbricate e dall'obbligo di servirsi di formule di genere.
La cosiddetta questione Suzuki emerse quando il licenziamento, le conseguenti proteste pubbliche, unitamente alla causa legale, vennero alla ribalta, e segnò un momento importante nel clima arroventato degli anni 60 in cui i movimenti studenteschi, quelli delle avanguardie e la crescente irrequietezza creativa del regista si incrociarono fatalmente. "La farfalla sul mirino", il film che sancì la definitiva rottura con Nikkatsu, è emblematico di quella convergenza. La protesta, ovviamente, era già nell'aria. Il Trattato di Mutua Cooperazione e Sicurezza tra Stati Uniti e Giappone (abbreviato in ANPO in giapponese), che estendeva la presenza militare americana, fu siglato nel 1960 nonostante l'ampia opposizione pubblica. Ora, a dimostrazione del fatto che "La farfalla sul mirino" fosse scevro da intenti politici, nel film non vi è che un fuggevole riferimento al trattato, per la precisione quando il protagonista scorge da un molo una portaerei americana che entra nella rada. Si tratta di una soggettiva in campo lungo di pochissimi secondi che non ha alcun peso sulla diegesi.
Ma allora cosa di questo regista e, nello specifico, de "La farfalla sul mirino", che aveva violato più dei film precedenti l'ordine di Nikkatsu di realizzare opere più accessibili, s'insinuò in questo momento culturale?
La trama del film si incentra su Hanada, il killer n.3 del Paese che, dopo un assassinio non riuscito, viene perseguitato da altri membri della sua organizzazione. Hanada deve così confrontarsi con la propria nemesi, il killer n.1, che si rivela il committente del lavoro fallito all'inizio. Si è tentati di intravedere almeno una critica subconscia, negli elementi essenziali della descrizione, per la frustrazione crescente di Suzuki nei confronti di Nikkatsu. Quando gli venne chiesto in un'intervista se gli piaceva lavorare a un ritmo così sostenuto in quell'azienda, rispose: "Più che altro si trattava di abbandonare l'idea che ci si potesse divertire nel fare film"[7]. Una scena verso la fine della pellicola, nella quale il protagonista si muove affannosamente in un appartamento per poi dare un calcio a un telefono che squilla incessantemente mentre cerca di sfuggire alla vista di un cecchino, sembra un'acuta metafora dello stress lavorativo nella Nikkatsu. In senso più ampio il film rappresenta una sorta di Zeitgeist della Tokyo del 1967, in particolare l'opera riflette implicitamente "le conseguenze positive e negative che seguono i preparativi per le Olimpiadi del 1964"[8]. Oltre alle angherie subite, dev'essere stata questa libertà di giocare con l'assurdo che ha avvicinato gli studenti e gli artisti a Suzuki. Dopo il trattato ANPO essi rifiutarono le rifiniture in favore di un'estetica più carnale e più trash, esattamente come Suzuki stava facendo con "La farfalla sul mirino", punto di convergenza del noir e dell'avanguardia giapponesi. In senso più ampio, dunque, l'attrito con la major segnò sì una svolta fondamentale nella carriera del regista e fece luce sulla confluenza incendiaria tra arte, protesta e cultura pop del Giappone negli anni Sessanta, ma simboleggiò anche il declino di Nikkatsu e con esso dello studio-system giapponese e dell'industria cinematografica nel suo complesso.
Nikkatsu Action
Durante lo splendore degli anni 50 e 60, la Nikkatsu sfornava film a ritmo serrato, in media uno a settimana, che spaziavano dal gangster movie al dramma storico. Nel giovane mercato del dopoguerra, inondato di cultura pop americana, lo studio collaudò una formula che divenne nota come "Nikkatsu Action", una delle divisioni di maggior successo, all'interno della quale Suzuki realizzò la maggior parte dei suoi film. Queste pellicole erano ambientate in una sorta di regno fantastico per teenager, ciò che Mark Schilling[9], nella sua storia del genere action di Nikkatsu definì "un mondo cinematografico che non era né giapponese né straniero, ma una miscela dei due, nella quale i "duri" giapponesi avevano la stessa spavalderia, le movenze e persino le gambe lunghe degli eroi degli schermi hollywoodiani". Anche se essi "riflettevano soprattutto una fetta sottile e cosmopolita" della realtà, in un momento in cui le tradizioni erano ancora saldamente ancorate nella maggior parte del paese, quella fetta costituisce una nozione idealizzata della cultura del tempo. Rappresenta cioè una ribellione contro la tradizione, impersonata dai simboli del noir americano: detective ben vestiti alla guida di grandi auto, che esibiscono una pistola e bevono whiskey in bar di lusso in stile occidentale. Un quadro del 1965 di uno degli artisti pop più importanti del Giappone, Koichi Tateishi, intitolato "Samurai, the Watcher", ritrae un samurai che si affaccia su un paesaggio con chiari riferimenti al western americano, e che rappresenta per "l'arte alta" la stessa contaminazione tra miti culturali americani e giapponesi che i registi Nikkatsu Action stavano realizzando. I loro protagonisti appaiono emancipati dai tradizionali valori fondanti della cultura nipponica, quali giri (dovere sociale) e ninjo (sentimento personale)[10].
Il dramma implicito in queste forze in conflitto ha da sempre costituito l'ossatura del racconto tradizionale giapponese, dal teatro di marionette Bunraku ai moderni film di samurai e di yakuza. Tradizionalmente, l'incapacità di conciliare giri e ninjo sfocia nella morte, o sotto forma di suicidio o in battaglia. Questo implica che un perfetto equilibrio dei due sia una sorta di utopia. Dato che nei film Nikkatsu Action questi concetti sono assenti, i suoi eroi cercano utopie altrove. Ne sentono l'assenza e le cercano, diventando perciò dei personaggi erranti, come avviene in "Return of the Vagabond" (1960) e "The Rambling Guitarist" (1959), o "Woman Sharper" (1963) di Suzuki. Anche le ambientazioni e le collocazioni temporali sono ondivaghe. Così, pur svolgendosi in Giappone, "The Rambling Guitarist" e "The Man with a Shotgun" (1961) di Suzuki utilizzano l'iconografia dei western americani. Nell'ultimo film citato, ad esempio, il protagonista è un cacciatore errante che diventa sceriffo di una città allo sbando, dopo aver sistemato i clienti di un bar che ricorda molto i saloon del Vecchio West. Un simile sentimento d'individualismo inquieto pervade "The Breeze on the Ridge" (1961) nel quale uno studente senza radici incontra una compagnia teatrale, la salva dalla rovina finanziaria, e si rimette in viaggio nuovamente, come un pistolero western che si allontana al tramonto. Le ambientazioni di questi film evocano tempi e luoghi della finzione piuttosto che un preciso scenario giapponese o un periodo storico definito. Si tratta di pellicole mukokuseki (senza confini), come ebbe a definirli Suzuki in un'intervista[11].
Con le loro trame serrate, i dialoghi concisi, e le scene d'azione frizzanti, persino i tradizionali B-movie potevano vantare delle qualità. Il lavoro di Suzuki come regista di tali opere consisteva principalmente nel realizzare film action economici partendo da sceneggiature già date, consegnarli nei tempi e possibilmente sotto i budget prestabiliti. Di norma aveva venticinque giorni per girare e tre per montare. Lo scoglio più insidioso da superare non era tuttavia il tempo, quanto la qualità dell'opera da consegnare. Racconta lo stesso Suzuki che la più grande preoccupazione del regista di B-movie era costituita dal seguente interrogativo: "Che effetto avrà il film principale che è proiettato prima del tuo?"[12]. Essendo la trama dei film Nikkatsu quasi sempre la stessa (il protagonista si innamora di una donna, uccide l'antagonista malvagio e si prende la donna), questo modello diegetico costringeva l'autore di B-movie ad agire su due fronti: scoprire in primis tutto il possibile sul film principale (dal regista agli attori, dallo stile alla colonna sonora) e cercare di essere alternativo nel modo di girare il proprio. In altri termini, mentre il regista del film A non aveva di che preoccuparsi dell'operato del regista del B-movie, quest'ultimo lavorava freneticamente sperimentando di tutto in nome dell'originalità! Per abusare della grammatica filmica così sfacciatamente come fece Suzuki nel suo ultimo periodo a Nikkatsu, la si deve conoscere piuttosto bene. Totalizzando oltre tre film all'anno per più di un decennio, egli divenne un maestro del ritmo serrato, delle trame ricche di tensione, e di tutti quegli espedienti sopra le righe che erano parte dello stile Nikkatsu Action.
La farfalla sul mirino
Le convenzioni di ripresa e montaggio del cinema narrativo sono concepite per mantenere le illusioni che a Suzuki piace così tanto smantellare. Tali convenzioni, ad esempio, comportano che il posizionamento della macchina da presa segua la logica della visione umana e che ogni inquadratura e ogni taglio siano motivati dall'azione sulla scena. In sostanza ci si aspetta che lo spettatore segua la narrazione come se si trovasse in una stessa stanza insieme ai personaggi. È questo che fa sì che lo schermo scompaia e ci catapulti dentro la storia. Suzuki, nello sforzo di essere creativo si oppone a queste categorie.
Ne "La farfalla sul mirino" Suzuki forza le istanze narrative in modo anche più significativo dei film precedenti nei quali le luci e persino la messa in scena richiamavano l'attenzione su di sé, rifiutando di comportarsi in modo naturale dato che esse avevano altri compiti rispetto a quelli che normalmente ci aspettiamo assolvano in un film. In film come "Tokyo Drifter" (1966)[13], ad esempio, le luci non illuminano gli attori, proiettano le loro emozioni. Il set, che normalmente è concepito come il mondo dove vivono i personaggi, si sgretola e mostra tutta la sua artificiosità. I meccanismi utilizzati per produrre l'illusione del cinema servono ora a svelarla. Se negli altri film lo stato mentale dei personaggi viene visualizzato attraverso l'uso non convenzionale del colore, della luce e di altri effetti visivi, ne "La farfalla sul mirino" è invece lo status psichico dei personaggi a motivare la messa in scena, contagiando il film con la loro pazzia. Il principale esempio è il folle appartamento di Misako, decorato di farfalle, una rappresentazione visiva delle stranezze della donna.
Suzuki disse che, all'opposto di quanto accade in altri, in questo film non ci sono un tempo e uno spazio definiti. Per questa ragione la narrazione ha una libertà creativa quasi decadente. Sollevati dalle motivazioni convenzionali, i personaggi possono fare ciò che vogliono in qualsiasi momento. Sono astratti come solo gli umani sanno essere. Il protagonista del film, interpretato da Jo Shishido, è Hanada, un killer che occupa il terzo gradino di una fantomatica organizzazione e del quale si ignora completamente il passato. Le sue guance ritoccate chirurgicamente gli conferiscono un'aria scontrosa, un aspetto spigoloso, quasi da fumetto[14]. È sposato, ma non ha figli. Nonostante l'aria e l'eloquio del duro ha una debolezza: nei momenti di tensione o sconforto ha il compulsivo bisogno di mangiare del riso. Di più: si abbandona alla grottesca abitudine di annusarne l'odore, di bearsi letteralmente dei vapori che si levano dalle ciotole nelle quali viene bollito. Mania novecentesca di pirandelliana memoria? Parodia di altre forme di dipendenza troppo inflazionate nei film gangster o yakuza? Niente di tutto ciò: Suzuki ha dichiarato in proposito che la motivazione di questo tratto del personaggio era semplicemente legata alla necessità di marcarne la nipponicità.
Già dalle prime inquadrature è evidente lo stile registico di Suzuki: il montaggio è fortemente ellittico, ben più del corrispettivo occidentale Robert Bresson[15], al limite del criptico. Gli stacchi sono improvvisi e i personaggi sembrano comparire sul set piuttosto che muovercisi attraverso; rinunciando in più occasioni ad inquadrare i loro volti, ma soltanto mani o avambracci che impugnano pistole, rifuggendo più volte a ogni senso del raccordo di montaggio, lo spettatore è quasi stordito dalla successione delle immagini. Un primo esempio di ellissi lo vediamo quando Hanada, incaricato di prelevare e scortare un misterioso personaggio, aperto dall'esterno lo sportello della macchina, nota qualcosa che lo fa desistere dal salire a bordo. A questo punto uno stacco ci impedisce di sapere di cosa si tratta perché, dall'esterno di una vetrata vediamo che Hanada si è (già) rifugiato dentro un edificio. Solo a questo punto, lo stacco successivo, quando anche il tassista guarda nell'auto, ci rivela che dentro c'è un cadavere. Sempre la notte (e non vi è indizio alcuno per capire se si tratti della stessa), quando ci si aspetta che la prima auto con a bordo Hanada e il tassista debba fare i conti con un'altra che sembra seguirli e li sta sorpassando, uno degli occupanti della prima sporge la mano all'esterno preparandosi allo scontro a fuoco, ma ecco che una brevissima inquadratura sulla seconda rivela che in realtà si tratta solo di alcune ragazze che col finestrino abbassato cantano un motivetto; il raccordo qui è chiastico: anche le ragazze hanno le mani fuori dal finestrino, ma solo per ritmare la musica.
Un altro esempio di ellissi, tra i tanti, lo troviamo quando Hanada, prelevato lo sconosciuto, a seguito di un'imboscata è impegnato nella prima sparatoria vera e propria: il tassista viene prima inquadrato accanto all'auto e allo stacco successivo è al riparo sotto un ponte. Suzuki non dà in definitiva il tempo allo spettatore di metabolizzare il trascorrere del tempo. È come se in questa prima parte del film il concetto di tempo e quello di spazio percorso per recarsi da un punto all'altro non esistessero! Altra sequenza significativa è quella del duello tra il tassista e un altro killer. Nello scontro, che contempera aspetti del duello western (la distanza) con l'estetica samurai (la conclusione in un corpo a corpo), Suzuki si prende gioco di entrambi, poiché il killer, prima di colpire il tassista, pulisce ostentatamente il pantalone con un fazzoletto in un gesto da damerino che stride con il contesto filmico. Non solo, dopo che i duellanti muoiono uccidendosi a vicenda e vengono inquadrati riversi al suolo con il volto esanime ma composto, la sequenza sembra terminata. Tuttavia, quando Hanada sta per ripartire, dopo uno stacco sulla loro fronte compare il foro di un proiettile. Dunque chi ha ucciso i due? L'uomo da proteggere? O chi altri? Solo successivamente sarà il cliente a rivelare di essere stato lui. Allo spettatore rimangono comunque degli interrogativi: quando? e perché la scena è stata tagliata? Successivamente, Hanada, dopo aver riaccompagnato il misterioso personaggio all'aeroporto, rimane con l'auto in panne sotto una pioggia torrenziale. Si imbatte così in Misako (Annu Mari), avvenente e misteriosa ragazza di cui si invaghisce all'istante. Dopo uno scarno dialogo tra i due, nell'auto di lei, uno stacco fortissimo mostra lui in piedi all'interno di una casa. Poi altro stacco sull'acqua che sembra provenire da una doccia. È la moglie che si lava. Ma dove siamo? A casa di lui? O lei è in casa di un altro? Nuovo stacco: ora è Misako a essere sotto la doccia. Ulteriore stacco: Hanada che assapora il riso e sullo sfondo la moglie che si asciuga i capelli. Dopo una serie di stacchi piuttosto brevi vediamo Hanada amoreggiare con la moglie, anche se lo spettatore è tenuto sulle spine, in quanto dopo averci abituato a forti ellissi in questa prima parte del film, sotto la coperta che nasconde il volto della donna potrebbe esserci pure Misako!
Quest'ultima è un personaggio enigmatico, laconico, sfuggente, anche grazie ai suoi tratti somatici, dovuti alla madre giapponese e al padre indiano. Per certi aspetti può essere considerata la femme fatale del noir di ascendenza occidentale, ma è piuttosto estranea al panorama dei film yakuza in quanto si carica di valenze accessorie. È colei che commissiona al protagonista l'omicidio di uno sconosciuto, che però fallirà per circostanze rocambolesche: una farfalla, poggiandosi sul mirino del fucile ostruisce infatti la visuale nel momento decisivo, donde il titolo del film. È evidente che qui Suzuki sta giocando coi generi. Di farfalle è pieno l'appartamento di Misako e il suo silenzio in proposito non fa che accrescere il mistero di questa bizzarra scelta "d'arredamento". Nella cultura giapponese la farfalla rappresenta il concetto di eleganza, di metamorfosi, l'idea del passaggio della fanciulla all'età adulta; ma può anche essere identificata con gli amanti suicidi o con misteri di difficile soluzione ed essere pertanto una mise en abyme, ovvero un enigma contenuto all'interno di un altro enigma, il film, che infatti presenta diversi punti oscuri.
Per quanto riguarda la rappresentazione degli spazi, uno stilema ricorrente ne "La farfalla sul mirino" è la presenza di strutture verticali che attraversano il profilmico e che spesso si frappongono tra la macchina da presa e l'azione: le colonne, la scala a chiocciola dell'appartamento di Hanada, o la corda di un secondo appartamento, così come la grata dalla quale questi sbuca per compiere una delle sue missioni, le balaustre, le inferriate che cingono ballatoi e spazi urbani è come se accrescessero quella sensazione di atomizzazione, di frammentazione già suggerita dalle scelte di montaggio. Gli spazi del film hanno ben poco di specificatamente nipponico, ma con spirito modernista sono rappresentati in modo universale, concepiti dunque per un pubblico non solo giapponese, con lo stesso spirito con cui, quegli stessi anni, Mario Bava[16] rappresentava il paesaggio italiano privandolo delle caratteristiche specifiche. I paesaggi urbani de "La farfalla sul mirino" sono anonimi, incombono sui personaggi con la loro freddezza e sovente Suzuki se ne prende gioco, come quando fa sparare Hanada dall'interno di un gigantesco accendino, appendice semovente di un'insegna pubblicitaria, o quando utilizza un pallone aerostatico pubblicitario per abbandonare la scaena criminis. Il film presenta anche uno spunto di riflessione metacinematografica. Il filmato in 16 mm. visionato da Hanada e che mostra Misako nelle mani dei rapitori è infatti un chiaro riferimento alla forte carica di suggestione che il dispositivo cinematografico è in grado di provocare e, al contempo, il gesto del protagonista che cerca di abbracciare la ragazza e si scontra con la materialità della parete è un più deciso monito anche allo spettatore, cui viene ribadito, riecheggiando il pensiero di Clement Greenberg[17], il concetto che una superficie piatta bidimensionale è in grado di suggerire l'illusione della tridimensionalità.
Talvolta l'inventiva di Suzuki si rifugia nel nonsense, come quando Hanada, affacciato al balcone, si ritrova tra le mani un palloncino in ascesa (dunque gonfiato con l'elio); sul medesimo palloncino, in seguito stranamente soggetto alla gravità, il protagonista imprime dei pugni. E che dire dei proiettili sparati dall'interno dell'auto che non lasciano alcun foro sul parabrezza? È evidente il piglio iconoclasta, parodico nei confronti della lunga tradizione degli yakuza eiga[18]. Dove invece Suzuki sembra debitore della tradizione è in quelle scene in cui Hanada e Misako recitano assumendo posture e gestualità affatto cinematografiche: il dialogo a distanza, col corpo rivolto altrove e con un'actio ostentatamente istrionica ci ricordano il Kabuki, l'antico teatro giapponese.
Un discorso a parte merita l'ultima parte del film, giacchè presenta una gestione dell'intreccio e un rapporto tra tempo del racconto e tempo della storia diverso rispetto alla prima parte. Innanzitutto l'unità di luogo (una palestra) conferisce più coesione alle sequenze che, a loro volta sono più dilatate. È come se Suzuki spingesse il pubblico a prendere posto in quella palestra e ad assistere con più calma al duello finale, centellinandolo. Dal secondo appartamento del protagonista, con uno stacco ci troviamo davanti al ring scelto per lo showdown. Intervallato dalle inquadrature fisse sull'orologio a muro che segna l'una del mattino, il volto di Hanada, nel corso di quasi tre minuti, si fa madido di tensione nell'attesa che il n.1. arrivi. La grana della fotografia è ora grossa e il chiaroscuro sul volto è di tipo espressionistico. Dopo un silenzio rotto solo da un'eco lontana che sembra scandire lo scorrere del tempo, al terzo stacco sull'orologio sono le tre del mattino: abbiamo rivissuto due ore d'attesa in meno di tre minuti di pellicola. Questa volta Suzuki ha manipolato il tempo in modo più convenzionale. Magari come avrebbe fatto Hitchcock.
L’eredità
La rinascita di Suzuki negli anni Novanta lo rese cool per una nuova generazione di autori giapponesi che assorbirono la sua estetica anarchica e talora gli resero omaggio invitandolo a comparire nei loro film. Una linea diretta può essere tracciata tra Suzuki e i registi giapponesi contemporanei come Shinji Aoyama, Takashi Miike, e Sion Sono, in cui la violenza sanguinosa e la perversione sessuale si mescolano a una vivacità umoristica e di stile. La conoscenza de "La farfalla sul mirino" in occidente, invece, penetrò all’inizio attraverso i film di registi che avevano sposato il suo gusto per la violenza stilizzata e per il ribaltamento del genere. Nel 1994, "Branded to Thrill: The Delirious Cinema of Suzuki Seijun", una retrospettiva che includeva anche La farfalla, iniziò un tour in Europa e Nord America. A quel tempo, i film di John Woo e altri registi di Hong Kong, che facevano rivivere il gangster movie come un nuovo tipo di arte cinetica pop, avevano iniziato ad attrarre schiere di appassionati americani. Uno dei sostenitori dichiarati di questi film, Quentin Tarantino, aveva già fatto scalpore nella cultura popolare con "Le iene" (1992) e "Pulp Fiction" (1994), sia per il quantitativo allora scioccante di violenza, che per la genuina passione nutrita verso l’estetica dei B-movie. Grazie a lui, generi prima scartati come kung fu, gangster e blacksploitation, insieme a B-movie come quelli di Suzuki, acquisirono una nuova valenza culturale. Come il regista giapponese, Woo aveva capito che i film di genere devono essere sperimentazioni di stile, il più possibile appariscenti. In "A Better Tomorrow" (1986), un arrogante Chow Yun-fat accende una sigaretta con una banconota da cento dollari. In "The Killer" (1989), una pioggia di proiettili fiocca in slow motion durante una sparatoria, e due nemici armati fingono, comicamente, di prendere un tè con la donna cieca di cui hanno invaso l’appartamento. Come le band ispirate dai Velvet Underground fondevano pop e sperimentazione, i registi rendevano omaggio a questi stessi elementi nel lavoro di Suzuki. "Ghost Dog – Il codice dei Samurai" (1999) di Jim Jarmusch è un vago remake de "La farfalla sul mirino" che include una scena presa direttamente da lì: con uno sprazzo assolutamente brillante nella sua assurdità, un assassino uccide un uomo chinato sul lavandino del bagno sparando attraverso il tubo dello scantinato. Anche Takeshi Kitano, per l’approccio surrealista de "Getting Any?" (1994) si mostra debitore di Suzuki.
Note
[1] "Elogio della lotta" (1966) contiene la più accesa requisitoria antibellicista dell'intera filmografia dell'autore.
[2] Fra gli esponenti della nuova estetica Ero-guro c'era Edogawa Ranpo (pseudonimo che gioca con la sonorità di Edgar Allan Poe), che era considerato l'autore più rappresentativo, un pioniere, il primo ad aver accostato l'elemento bizzarro e quello erotico al romanzo d'investigazione (tantei shoetsu).
[3] "La banda di Asakusa", 1930.
[4] "Zigeunerweisen" (1980), "Il teatro delle illusioni" (1981) e "Yumeji" (1990).
[5] Shigehiko Hasumi, A World Without Seasons, in The Desert under the Cherry Blossooms (Abcoude, Uitgeverij Uniepers), 1991, p. 15.
[6] Suzuki gli avrebbe reso il favore testimoniando al processo per oscenità in "Ecco l'impero dei sensi".
[7] Tom Mes, Japan Cult Cinema Interview: Suzuki Seijun, Midnighteye.
[8] Daisuke Myiao, Dark Visions of Japanese Film Noir: Suzuki Seijun's Branded to Kill, in Japanese Cinema: Texts and Contexts, a cura di Alastair Phillips e Julian Stringer, London, Routledge, 2007, p. 197.
[9] Cfr. Mark Schilling (a cura di), Né limiti né confini. Il mondo della Nikkatsu Action, Udine Far East Film 7, Centro Espressioni Cinematografiche, 2005.
[10] Sebbene venga dalla cultura inglese, Romeo e Giulietta di Sheakespeare rappresenta bene questo concetto, con i protagonisti lacerati dalla pressione degli obblighi familiari e dell'amore proibito.
[11] Mark Schilling, The Yakuza Movie Book, Berkeley, Stone Bridge Press, 2003, p. 98.
[12] Seijun Suzuki, The Days of Kanto Mushuku, in The Desert under the Cherry Blossooms, cit., p. 36.
[13] Nel momento clou del film, in una scenografia minimalista, una sorta di lampadario a forma di ciambella si illuminava di colori diversi a seconda dello stato d'animo dei personaggi.
[14] Tra i fumetti incentrati sui killer professionisti, "Golgo 13" (disegnato da Takao Saito) il 12 Luglio del 2021 è entrato nel Guinness dei primati come serie manga più longeva a seguito della pubblicazione del 201esimo volume. La prima uscita risale al 1968. Nonostante le differenze legate alla serialità, non poche sono le somiglianze di Golgo 13 con il protagonista del film di Suzuki: taciturno, impavido, diffidente, è in grado di sparare dai luoghi più impensati.
[15] Si pensi ad esempio a "Diario di un ladro" (1959).
[16] Il regista italiano, soprattutto ne "Sei donne per l'assassino" (1964), condivide con quello nipponico anche la tendenza della macchina da presa a muoversi seguendo regole proprie, senza aderire allo sguardo dei personaggi.
[17] Clement Greenberg, padre del modernismo era un convinto assertore della superiorità della pittura sulla scultura per il fatto che le superfici piane sono in grado di suggerire la profondità.
[18] Ne "The Call of Blood" (1964) Suzuki era giunto addirittura a parodiare l'uso del trasparente, per altro diffusissimo in quegli anni: nel corso del tragitto di un'auto le riprese dall'interno verso il lunotto mostravano minacciose onde marine anziché il consueto paesaggio stradale.
cast:
Jô Shishido, Mariko Ogawa, Annu Mari, Kôji Nanbara, Isao Tamagawa, Hiroshi Minami
regia:
Seijun Suzuki
titolo originale:
Koroshi no rakuin
distribuzione:
CG Entertainment
durata:
91'
produzione:
Nikkatsu
sceneggiatura:
Takeo Kimura, Hachiro Guryu, Mitsutoshi Ishigami, Chusei Sone, Atsushi Yamatoya
fotografia:
Katsua Nagatsuka
scenografie:
Motozo Kawahara
montaggio:
Akira Suzuki, Mutsuo Tanji
musiche:
Naozumi Yamamoto