Come di rito da alcuni anni a questa parte, nel faticoso tentativo di perpetuare il proprio prestigioso influsso sull'immaginario collettivo e di sopperire alla carenza di idee con lo sfoggio di una possente artiglieria tecnica, casa Disney prosegue il ripasso in pompa magna dei classici che ne fecero la passata grandezza. Sebbene queste operazioni autocelebrative, soprattutto quando reiterate con un simile grado di pianificazione, non mostrino alcuna urgenza diversa da quella strettamente economica, prestando il fianco a critiche risapute, restano comunque oggetti di analisi di un certo interesse perché, come tutti i processi revivalistici, esibiscono, in modo particolarmente lampante, alcuni caratteri della contemporaneità. Tanto le riletture più argute (come la "
Cenerentola" di Kenneth Branagh o "
Il Libro della Giungla" di Jon Favreau) quanto gli aggiornamenti più poveri e grossolani (si pensi al pasticcio burtoniano di "
Alice in Wonderland" o ai risibili "
Maleficent" e "
Biancaneve e il cacciatore"), funzionano nel bene e nel male da cartine tornasole dei mutamenti di gusto e dello spirito del tempo, sia sul piano dei contenuti didascalici sia in termini squisitamente formali.
È il turno de "La bella e la bestia", una scelta che, se possibile, amplifica già in partenza la forte impronta di ridondanza, nota dominante in questo genere di repliche. Di fatti, non solo la celeberrima fiaba settecentesca di Jeanne-Marie Leprince de Beaumont ha da sempre ispirato, in modalità più o meno esplicite, innumerevoli adattamenti televisivi, teatrali e cinematografici (tra i quali resta insuperato per fama, stile e spessore simbolico quello firmato nel 1946 da Jean Cocteau), ma ha pure conosciuto nell'ultimo quinquennio un paio di trasposizioni sinceramente dimenticabili: una americana intrisa di imbarazzante giovanilismo, "Beastly", e
l'altra francese annientata da una goffa veste kitsch e pseudo-barocca.
Nel caso in questione, com'è ovvio, l'unico referente non è il racconto originario, l'archetipo, bensì
il film d'animazione del 1991, primo
cartoon a gareggiare per l'Oscar a miglior film, e rientrante a pieno titolo tra i capi d'opera della scuderia disneyana. Anche in questa circostanza, l'adesione al modello animato è palese e dichiarata, ma la congruenza non si completa del tutto, mantenendo degli spazi di variazione e aggiornamento estetici e tematici, seppur minimi, in cui dovrebbe riverberarsi il valore dell'originale e quindi misurarsi il successo della sua riscrittura.
Se Branagh si era saggiamente ammorsato alla tradizione figurativa di "Cenerentola" e aveva dotato l'eroina di un'indole meno passiva e dimessa, mentre Favreau era riuscito a rimarcare intelligentemente la distanza tra le innate facoltà propriamente umane di Mowgli e quelle incarnate dai diversi animali della foresta, Bill Condon, a questo giro in cabina di regia, non coglie le stesse occasioni. Nella sceneggiatura di Evan Spiliotopoulos e Stephen Chbosky (autore dell'apprezzato
indie "Noi siamo infinito"), al ricalco fedele di inquadrature, canzoni e battute si accostano poche e futili aggiunte che non riescono, come vorrebbero, a dare un colore più contemporaneo al tessuto narrativo. Sicuramente si pone maggiore enfasi sul rapporto tra Belle e la lettura, decisivo nel definire l'identità della ragazza, i motivi del suo isolamento dal resto del villaggio e l'affinità intellettuale e sentimentale col mostro, ma lo spirito emancipato e anticonformista della protagonista non trova ulteriori connotazioni significative. Allo stesso modo il
flashback che approfondisce la drammatica separazione tra Belle e la madre, il protrarsi delle sequenze più spettacolari o l'aggiunta di alcuni personaggi di contorno allungano il minutaggio della pellicola senza lasciare il segno.
Allora l'unico significativo motivo di interesse e di allaccio al gusto contemporaneo sta nel ricorso costante alla più evoluta computer grafica, capace di tradurre in corpi ultradefiniti e scenari iperrealistici personaggi e ambientazioni animate, nonché di rendere pirotecnici numeri arcinoti come "La canzone di Gaston" o "Stia con noi" che, anche qui, funzionano alla perfezione. Eppure il totale affidamento alla sontuosità effettistica, non filtrata da uno sguardo abbastanza personale o sensibile, sembra raffreddare il fascino irresistibile del classico del 1991. Per intuirlo, basta osservare lo scarto che separa i due incipit: il primo, con l'antefatto garbatamente stilizzato a mo' di vetrata gotica, e il nuovo che invece vira anonimamente verso atmosfere più
dark e modaiole. In questo senso il cambio di passo appare tristemente significativo: se nel passato la Disney ha rivoluzionato i paradigmi del cinema d'animazione, imponendo innovazioni linguistiche eccezionali e plasmando l'immaginario del pubblico di ogni età, oggi pare ridotta a inseguire tendenze ed estetiche a tutti i costi al passo coi tempi, senza imprimere alcuna novità.
Questa volta, perciò, l'operazione nostalgia non funziona come dovrebbe: invece di riaccendere la memoria emozionale e titillare lo spirito puerile anche dello spettatore più maturo, lascia un po' di rimpianto per la grazia e la meraviglia dell'originale animato e, con esso, il desiderio segreto di rivederlo alla prima occasione.
15/03/2017