Lungi dall'invertire un trend produttivo rimasto costante oramai da diversi anni - ad eccezione di qualche slancio, sempre più raro - la Disney si limita prevalentemente a rimaneggiare opere e personaggi che la resero gloriosa in passato, inanellando sequel, prequel, remake, spin-off
et similia. Strategia comune, del resto, a tutte le grandi major che, sempre più restie a qualsivoglia sforzo innovativo, nella replicazione ininterrotta di scenari e saghe sperano, com'è ovvio, di far cassa, senza dover sopperire a una carestia di idee che, col passare del tempo, non fa che aggravarsi. Sporadicamente gli esiti possono rivelarsi pure positivi, ma il più delle volte la qualità è la sola, vera "cenerentola", con risultati al limite del risibile. E così, dopo due precedenti fallimentari come l'"
Alice in Wonderland" a firma Tim Burton o il più recente "
Maleficent" con la strega cattiva Angelina Jolie, viene affidata a Kenneth Branagh la versione in
live action di un altro amatissimo titolo degli anni d'oro della scuderia disneyana, "Cinderella" appunto.
Branagh, attore di indiscusso talento, ma regista non altrettanto dotato, in questo caso opera con un intento preciso: evita di cimentarsi in seguiti e improbabili reinterpretazioni come chi l'ha anticipato e si affida in via esclusiva alla tradizione, all'esposizione della fiaba
sic et simpliciter. Una scelta di campo netta (e, possiamo dirlo, tutto sommato vincente) che porta con sé un'inevitabile combinazione di limiti e virtù. Da un lato, infatti, una trasposizione senza sforzi di rilettura, così fedele al celebre lungometraggio animato del 1950 e all'originale fiaba di Charles Perrault riduce a zero il tasso di imprevisti e sorprese. L'effetto fisiologico, se non proprio ovvio, è quello di una pellicola che si lascia benissimo immaginare prima della visione, in cui "tutto è al suo posto". D'altro canto, proprio questo pedissequo rispetto per le fonti offre non trascurabili vantaggi, per molti versi inaspettati, soprattutto agli spettatori
over-age. Sul piano estetico, infatti, l'immaginario di riferimento non si limita (sol)tanto al cartoon, ma si estende al meraviglioso (e classicissimo) universo delle prime letture infantili, ai bei libri con le pagine finemente illustrate, tutte sature di colori e luccichii. Questo ripescaggio di mondi archetipici, ricostruiti con attenzione quasi filologica alla sintassi canonica e alle fantasie collettive, non intende semplicemente "ambientare" la storia, ma rievocare - con l'aiuto sostanziale delle nuove tecnologie - degli spazi emozionali perduti o dimenticati, che si lasciano riattraversare con un piacere misto di nostalgia e sollievo. Quindi, per gli spettatori usciti anche da poco dai giardini dell'infanzia, quel "tutto è al proprio posto" che diventa "tutto è dove e come lo avevamo lasciato" può rivelarsi fonte generosa di rassicurante gradevolezza. Acquisisce in tal modo piena centralità quel ricco comparto di scenografie, abiti, trucco e parrucco (col suo schieramento di straordinari professionisti, Dante Ferretti in testa) che da elemento rilevante ma comunque periferico, diventa colonna portante dell'operazione e passa in cabina di regia, eclissando a tratti pure l'arcinota vicenda e giustificandone l'ennesima riproposizione.
Inoltre, la ripresa esatta delle linee narrative non impedisce una percepibile, seppur minima, modernizzazione di alcuni loro contenuti. Pertanto il manicheismo connaturato nella forma fiabesca si tinge di timidi aneliti umanisti, senza mai rinnegare se stesso: i buoni restano buoni, i cattivi restano cattivi, com'è giusto che sia. Al contempo, però, Cenerentola non è più una scialba servetta remissiva in perenne attesa del suo salvatore (come voleva il costume di un tempo), ma una fanciulla gentile
e intelligente, dotata di un nome, un passato, una volontà di riscatto e dei progetti per il futuro. Di par suo, il Principe Azzurro smette di fare esclusivamente il
Prince Charming e trova un carattere un poco più meditativo, virtuoso non per l'alto lignaggio quanto per la capacità di discernere e derogare alle prescrizioni della nobiltà e ai desideri paterni, in nome di valori più alti e puri (l'Amore, inutile sottolinearlo). La stessa crudeltà della matrigna non rimane senza ragioni, ma viene (assai frettolosamente) spiegata come probabile risposta degenere al dolore, di converso all'immensa pazienza e bontà promessa dalla protagonista alla mamma in fin di vita. L'irriducibile gentilezza che quasi l'avvicina alla santificazione è l'imperativo morale che risuona ripetutamente nel corso dell'opera; un vincolo etico che non si schiaccia su una debole passività, bensì assurge a espressione di uno "stare al mondo" che esige coraggio e forza d'animo, soprattutto nel presente. Queste poche suggestioni, elementari e nemmeno troppo originali, messe in luce con coerenza e spiegate con lineare onestà, bastano a riattualizzare un minimo l'impalcato didascalico del racconto.
Rispondente al tradizionalismo figurativo del film è poi la selezione degli interpreti, appetibile e minuziosa: con la candida Lily James, trasferitasi dalle verdeggianti location di "Downtown Abbey", e il promettente Richard Madden che, smessi i panni del Re del nord in "Game of Thrones", presta nuovamente le fattezze aristocratiche a un monarca dal destino (si spera) meno tragico, e poi la splendida Cate Blanchett che ha gioco facile alle prese con la perfida Lady Tremaine e la Fata madrina Helena Bonham-Carter, unica e residuale reminiscenza burtoniana.
Insomma, ridondanze per ridondanze, se ripasso dev'essere, che almeno sia fatto per bene.
14/03/2015