A Donato Carrisi vanno riconosciuti indubbi meriti. In libreria, ha riportato il giallo d’autore italiano nelle classifiche dei bestseller attraverso una serie di romanzi di valore. Sul grande schermo, ha riesumato il cadavere del thriller classico, ispirandosi a quel nobile filone datato soprattutto anni 80-90 (da “Manhunter” a “Seven”, da “Omicidio a luci rosse” a “Il silenzio degli innocenti”) che – non si sa bene perché – negli ultimi tempi il cinema internazionale (e ancor più italiano) ha abbandonato, virando verso varianti più orrorifiche, occhieggianti a soprannaturale e dintorni. Carrisi no, lui resta un sincero appassionato delle vecchie storie di serial killer e di detective, possibilmente sdruciti e fiaccati dalla vita, un po’ come l’investigatore privato Genko interpretato da Toni Servillo in “L’uomo del labirinto”.
Ma, specularmente a quanto avviene in alcuni suoi romanzi, anche alla macchina da presa Carrisi, a volte, si fa prendere la mano. Se così l’esordio “La ragazza della nebbia”, per il quale ricevette un David di Donatello come Miglior regista esordiente dalle mani (sante) di Steven Spielberg, era stato più che convincente, il secondo passo con il suddetto “L’uomo del labirinto” si era rivelato decisamente più lungo della gamba, smarrendo il controllo della materia visiva, tra sovrastrutture ridondanti, complicazioni narrative e una recitazione a tratti un po’ macchiettistica (incluso un Dustin Hoffman sprecato). “Io sono l’abisso” cerca dunque di recuperare le premesse più sobrie e canoniche dell’esordio, finendo però per perdersi nella confusione dell’opera seconda.
Le premesse del thriller classico ci sono tutte, con un terzetto di protagonisti intrigante: uno spazzino sui generis, misterioso e indecifrabile (L’uomo che puliva), una potenziale vittima fragile e indifesa (La ragazzina col ciuffo viola), una strampalata investigatrice per caso (La cacciatrice di mosche), la classica “matta del paese” a cui nessuno naturalmente crederà. Tre anime destinate a incontrarsi dentro l’abisso. Con un antefatto inquietante e traumatico, contraddistinto da quell’acqua che resterà l’elemento dominante del film – girato presso il Lago di Como - assieme alla spazzatura, metafora della vita nascosta delle persone: “La gente non pensa mai a ciò che getta via – teorizza il film - Invece proprio tra i rifiuti si nascondono i segreti delle persone. Le persone dicono bugie, ingannano. La spazzatura no, la spazzatura non mente”. Anche la ragazzina col ciuffo viola si è gettata nel lago come un rifiuto sociale, caricandosi dell’insostenibile peso di una storia di revenge porn. Ma il suo imprevisto salvataggio potrebbe non bastare a fermare la spirale di omicidi.
Come spesso accade nei thriller poco riusciti, a salvarsi è soprattutto la prima parte, in cui l’ambientazione gioca un ruolo decisivo. Nella fattispecie, Carrisi scava nel torbido di un Nord Italia malvagio e velenoso, fatto di indifferenza, desolazione e squallidi locali come il Dancing Blue, crocevia tossico di stagionati voyeur e disperate prostitute, vittime designate della furia omicida di un serial killer (apertamente ispirato a Luigi Chiatti, il Mostro di Foligno) che indossa parrucche bionde e baffi finti, assomigliando a un attore porno degli anni 70. Sullo sfondo il lago, un luogo che “se ci butti una cosa se la prende” e che sembra inghiottire anche le esistenze dei protagonisti, ma che viene ritratto in modo piuttosto anonimo, senza la carica visionaria che aveva fatto la fortuna di un altro (buon) thriller italiano come “La ragazza del lago” di Andrea Molaioli.
Ma a non funzionare è soprattutto la trasposizione della storia sul grande schermo. Intrappolata tra trame che si intersecano forzatamente, dialoghi verbosi e letterari, sequenze inverosimili (l’incidente d’auto, l’aggressione alla protagonista etc.) che mettono a dura prova la sospensione dell'incredulità e una recitazione complessivamente improbabile, la macchina narrativa stride e si inceppa a ripetizione, disperdendo presto la tensione dell’avvio. In più, l’esuberanza di Carrisi finisce con l’ingolfare la rappresentazione di troppi stilemi, se non cliché, del cinema noir d’oltreoceano, finendo col risultare calligrafica e poco spontanea (stucchevole, ad esempio, l’insistenza sul piano inclinato nell’evidenziare la psiche deviata del protagonista così come l’ossessiva metafora dell’acqua e della pioggia, anche negli interni). Al contrario, si rivelano poco sviluppate le riflessioni su alcuni temi centrali della vicenda criminale, come femminicidi, pedofilia, abuso minorile e slut-shaming, nonché su quella che dovrebbe essere l’intuizione cruciale del romanzo, l’indagine “ribaltata” su come si possa trovare il bene anche all’interno del male.
Resta, tuttavia, la sincera bontà del tentativo, in nome della quale rispettiamo anche la stravagante richiesta di Carrisi di mantenere segreta l'identità dei suoi interpreti (almeno in questa sede, li potete leggere nella scheda tecnica a fianco), parte di una strategia di "alienazione" complessiva che ha visto anche lo sventurato protagonista isolato sul set per tutta la durata delle riprese, privo di contatti con il resto dell’umanità ad eccezione del regista, senza cellulare, internet o tv (e si narra perfino che dopo l’ultimo ciak, l’attore sia scoppiato in un pianto a dirotto e sia stato abbracciato dai membri della troupe).
Provaci ancora, Donato.
cast:
Michela Cescon, Gabriel Montesi, Sara Ciocca
regia:
Donato Carrisi
distribuzione:
Vision Distribution
durata:
126'
produzione:
Palomar
sceneggiatura:
Donato Carrisi
fotografia:
Claudio Cofrancesco
scenografie:
Maurizio Leonardi
montaggio:
Massimo Quaglia
costumi:
Chiara Ferrantini
musiche:
Vito Lo Re