Ad appena due anni dall'apocalisse in versione giocattolo di Roland Emmerich, che rilanciava con garbo tipicamente yankee il delirio catastrofista del profeta casereccio Roberto Giacobbo (e va da sé che ogni epoca ha la Cassandra che si merita), le oculate strategie di mercato delle produzioni statunitensi coronano, ora, l'estate più umida e calamitosa degli ultimi tempi con l'aggiornamento in stile found-footage delle trombe d'aria che nel 1996, in "Twister", agitavano le pianure del Midwest. Naturalmente, trascorsi quasi vent'anni dalla fantasia crichtoniana, nell'America di oggi non c'è più spazio per una suggestiva parentesi agreste con mucche impegnate a piroettare in punta di zoccoli; dobbiamo, qui, accontentarci di una declinazione più tecnologica del memorabile balletto, rimpiazzato dalle goffe contorsioni senz'anima di autobus e aeroplani. E non è certo la stessa cosa.
Trasferito, poi, l'espediente narrativo dal fuggevole contesto di una crisi di coppia tra cacciatori di uragani a quello di una cerimonia di consegna dei diplomi con tanto di protagonista adolescente in rotta col padre e invaghito di una coetanea, non si fatica a indovinare la fascia di mercato del prodotto. È il trionfo di un'estetica plastificata e tradotta negli stilemi televisivi e immediati dei canali Disney, un profluvio di ciuffi a virgola cascanti sulla fronte, atleti strafottenti (ma pronti a redimersi in un finale più improponibile che semplicemente ridicolo), atteggiamenti riprodotti in serie e sguardi effimeri, di volgare superficialità.
C'è da credere che lo sceneggiatore abbia trascorso più tempo in pausa caffè che sui dialoghi e non ci sentiamo di dargli torto. In un simile progetto quel che conta è la ricchezza degli effetti, non certo l'introspezione dei personaggi. Meglio, allora, rinunciare alla trama e cadenzare gli sconquassi delle trombe d'aria in un crescendo di spettacolarità. Se, però, per risparmiare qualche milione (e allungare un film che altrimenti rischierebbe la durata di un cortometraggio) si opta per una linea narrativa che regga la tensione negli interstizi tra una devastazione e l'altra, una minima cura per il contesto si impone.
E se i giovani appaiono irrimediabilmente votati all'effimero e succubi di una pulsione scopica, che travalica l'analisi sociale ed evade i confini del ridicolo (si veda il momento imbarazzante del video-testamento), gli adulti confermano e ribadiscono la povertà inconsapevole di un mondo arreso alle soap-opera (di rara inutilità il dialogo nella Chiesa curiosamente risparmiata dalla furia dei venti). Al punto che ci si ritrova, infine, a tifare per l'uragano, con sommo impoverimento di una tensione drammatica già inconsistente.
Ci potremmo anche fermare qui, se non fosse che il regista Steven Quale - già colpevole del quinto episodio di "Final Destination" - ha pensato di nobilitare l'infelice materia di "Into the Storm" con la trovata (anch'essa infelice) di frammentare il punto di vista. L'intero film è, allora, concepito come l'esito di un improbabile montaggio del materiale registrato sul posto dagli stessi protagonisti attraverso telefonini, videocamere amatoriali e professionali, nastri di sorveglianza e via dicendo. Al di là della consueta obiezione - sinora brillantemente risolta dal solo "Paranormal Activity" - che in simili circostanze nessuno penserebbe di barattare la propria salvezza per una breve testimonianza filmata (critica, in fondo, discutibile se rivolta a professionisti del settore, giornalisti, stormchasers o semplici invasati, ma ben più concreta nel caso di adolescenti sul punto di annegare), quel che lascia di stucco è la miracolosa uniformità delle riprese, la messa in quadro sempre pulita e a fuoco, le corrette posizioni degli attori, sebbene spesso la camera venga dimenticata sul treppiede. Una qualche provvidenza deve aver sorvegliato quegli sguardi meccanici, guidato la mano di cinefili amatoriali fino a renderla più fluida di un operatore con la steadycam. Non si spiega altrimenti come sia possibile passare da un filmato professionale a uno amatoriale senza notare variazioni nei colori, nella luce, nella grana, persino nello stile, omogeneo e indistinguibile.
C'è da rammaricarsi per le poche riprese effettuate da videocamere di sorveglianza; si tratta, in fondo, dei soli momenti in cui siano percepibili un filo di realtà e un indizio di stile, che allontanino il prodotto dal gusto televisivo.
In tutto questo, comunque, c'è qualcosa di profondamente americano. Quel che in "Into the Storm" strappa un sorriso di indulgenza per la scoperta ingenuità dell'assunto, altrove diventerebbe insopportabile, obbligherebbe immediatamente a lasciare la poltrona e chiedere a gran voce i soldi del biglietto.
L'epica del disaster movie non poteva che trovare la sua esaltazione e il suo compimento nella retorica di un paese privo di una complessa stratificazione storica e in cui, contrariamente a quel che avviene in Europa, si costruisce a breve termine, in vista di future demolizioni. Qui da noi un tornado non potrebbe mai assumere un valore spettacolare, perché finiremmo col temere per le sorti della Basilica di San Marco.
Per questo Quale gira il film a Silverton, in Oklahoma, e può permettersi di affastellare, nelle ultime scene, i sorrisi dei sopravvissuti, pur circondati dalle macerie. Sullo sfondo una bandiera americana è mossa da un sottile venticello; forse per la provvidenza di cui parlavamo non è stata sradicata assieme al palazzo su cui un tempo sventolava. Dell'edificio non è rimasto nulla, ma la bandiera ha resistito. Ci avremmo scommesso.
cast:
Richard Armitage, Sarah Wayne Callies, Jeremy Sumpter, Nathan Kress, Matt Walsh
regia:
Steven Quale
distribuzione:
Warner Bros. Pictures Italia
durata:
89'
produzione:
New Line Cinema, Todd Garner, John Swetnam
sceneggiatura:
John Swetnam
fotografia:
Brian Pearson
scenografie:
David Sandefur
montaggio:
Eric A. Sears
costumi:
Kimberly Adams-Galligan
musiche:
Brian Tyler