A distanza di ben sette anni dal
precedente capitolo Ron Howard torna (con una crew sostanzialmente invariata) ad occuparsi dell'infinita saga di Robert Langdon, dimostrando una strana vicinanza di prospettive con Dan Brown e la sua idea di letteratura. Difatti il cinema del regista è ormai innegabilmente supino al medesimo stile narrativo ridondante e allo stesso irritante approccio superficiale alla Storia e a contesti differenti dal proprio, come si può forse dedurre da altri suoi film recenti, come
"The Beatles: Eight Days a Week" oppure
"Frost/Nixon"(ma il collega
Pernini probabilmente avrebbe da
ridire). D'altronde nell'ottica imprenditoriale e quasi mai "autoriale" del regista dell'Oklahoma l'alternanza fra opere più che discrete come
"Rush" e marchette come la qui presente non appare certo insensata ma anzi è la principale caratterizzazione del cinema di Howard, oramai divenuto quasi l'emblema di questo approccio.
Non si deduca però da questa introduzione che le debolezze di "Inferno" stiano negli astratti punti precedentemente citati, poiché esse sono ben più sostanziali. Che dire infatti della sceneggiatura (a questo giro del solo David Koepp) che alterna didascalismo e dialoghi e sequenze il cui significato sfugge, oppure del sempre più imbolsito Tom Hanks e dei suoi colleghi quasi tutti al limite della mediocrità, o ancora della regia che per voler essere dinamica si dimostra solo molesta (mai come prima nel cinema di Howard). Per non parlare delle sempre più ridondanti musiche di Hans Zimmer e dell'uso totalmente stereotipato delle località italiane. Perciò il venticinquesimo film di Ron Howard fallisce pure nel suo obiettivo primario (l'unico intenzionale, in tal caso), cioè fornire un'opera d'intrattenimento coesa e sensata, in cui l'abuso di discutibili effetti in computer grafica e il ricorso ai più triti luoghi comuni si riduca ad una necessità contrattuale e non nell'unico modo per tentare di sostanziare un'opera di cui il critico si chiede davvero cosa si possa salvare.
Riflettendoci si può concedere al regista la riuscita di un paio di scene d'azione (più frequenti che nei due adattamenti precedenti), soprattutto della notevole prima parte dello scontro finale, l'efficacia della rappresentazione dello stato di stordimento e visionario del protagonista nella fase finale, per quanto in fin dei conti stucchevole data la reiterazione di alcuni tratti stilistici, alcuni eventuali riferimenti umoristici all'Italia e alla sua società (tutt'altro che certi) e soprattutto la problematica tematica che dovrebbe sorreggere l'intera narrazione (ovvero l'uso della scienza per direzionare lo sviluppo del genere umano). Purtroppo è proprio nel trattamento di questo argomento e del correlato pensiero transumanista (descritto sommariamente nel romanzo e qui appena accennato) che "Inferno" si dimostra un'opera sterile e in fin dei conti priva di reale interesse. Infatti la maniera assolutamente priva di sfumature con cui tutti i personaggi correlati al progetto del virus Inferno vengono trattati e la palese mancanza di voler approcciare (e far approcciare lo spettatore) in maniera minimamente attiva tutte le questioni che il film può far scaturire non solo risultano un'ulteriore semplificazione ed estremizzazione di ciò che avviene nel libro (in cui il suddetto morbo ha un meno assurdo fine) ma la definitiva dimostrazione dell'inconsistenza totale del progetto.
Ne consegue che ciò che resta dell'opera, se si esclude appunto l'ignava messa in scena del romanzo di Dan Brown, compreso il nozionismo da terza liceo di Langdon, sia la mera funzione pubblicitaria che, se ne "Il codice Da Vinci" e "Angeli e Demoni" appariva perlomeno accessoria alle intricate trame thriller, qua diviene talmente palese e continua da mutarsi nell'ovvia ragione prima e da rendere "Inferno" una sorta di corrispettivo intellettualistico e al contempo più volgare delle avventure di
James Bond. La causa di ciò è forse rintracciabile in fin dei conti nel romanzo ispiratore, il quale, data la mancanza di obiettivi per i suoi strali, tenta di trovare una
raison d'être nelle sempre più eccezionali minacce, nella proliferazione di personaggi, nella meccanicità degli enigmi da risolvere e nel fascino insito dei luoghi e dei temi con cui ha a che fare, riducendosi così ad un profluvio di eventi e dialoghi capace solo di sfinire il lettore/spettatore. Si potrebbero fare molte considerazioni su come l'imprinting tipicamente statunitense e la mancanza di ironia (perlomeno come scrittore) di Brown abbiano trasformato gli originali modelli di letteratura postmodernista di Borges e ancor più Eco e i loro ludici e stratificati
pastiche in degli cross-mediali
feuilleton "d'autore". L'unica cosa che il sottoscritto si sente di affermare è che il simile approccio di Ron Howard nei confronti di già non così brillante materia abbia condotto "Inferno" ad essere l'ennesimo blockbuster-disastro della seconda metà del 2016.