In forme di volta in volta più nitide, il cinema di Ron Howard va disegnando una sua precisa traiettoria.
A dispetto dell'imperdonabile virata, che ne ha per due volte umiliato il percorso fino alle baracconate romanzesche del briccone Dan Brown, è senza apparente sforzo che le direttrici dei suoi più recenti lavori si orientano lungo un percorso oscillante attorno ai poli del confronto/scontro tra caratteri antitetici e dell'ossessione, pulsione primordiale che precipita chi vi è condannato in una vertigine dei sensi, fino a esasperarne l'ordinaria condotta ben oltre gli argini del buon senso. E se l'intervista di "Frost/Nixon" palpita sulle medesime aritmie di un incontro di pugilato - tanto da rammentare i ganci e le cadute di Russel Crowe sul ring di "Cinderella Man" - è nell'ottimo "Rush" che i detti nuclei tematici conquistano l'acme di una naturale convergenza, in quel nodo che oppone due incompatibili visioni del mondo (il ragioniere Niki Lauda all'avventuriero James Hunt), consumate entrambe da una pulsione irragionevole quanto insopprimibile.
Non meraviglia, dunque, che la successiva tappa di questo ardito inoltrarsi nelle pieghe dell'ossessione sia il confronto col testo principe del mito americano, quel letterario atto di fondazione di una cultura, in cui quest'ansia è meglio che altrove metamorfizzata, sacralizzata, persino, dal rutilante incedere di subordinate che informa lo stile biblico di Herman Melville: Moby Dick. Un esito che procede con la schiettezza di un sillogismo. Eppure non è la voce solenne di Ismaele ad accompagnare il racconto, né vi è traccia alcuna, nel film, del capitano Achab e la sua tremenda ambizione di vendetta. Non siamo sorpresi; a ben guardare non poteva essere il mito a stuzzicare l'interesse di Ron Howard, ma la Storia col suo sapore di verità. Quel che egli traspone in immagini non è, allora, la complessa opera di Melville, ma l'episodio storico che ne ha suggerito l'idea, l'affondamento - nel 1820 - della baleniera Essex ad opera di un enorme capodoglio al largo del Pacifico. Scelta naturale per un cineasta da sempre votato all'enfasi retorica (in piena tradizione hollywoodiana) e consapevole di dover appoggiare le proprie fantasie melodrammatiche su un tappeto di verità storiche per evitare che la lacrime si volgano in leziosità.
Ecco, dunque, l'apparire in incipit di Herman Melville - prima voce, nella falsa soggettiva di un abisso oceanico, poi corpo, per gli umidi viali di un borgo illuminato dall'olio di balena - deciso ad ascoltare la cronaca del naufragio dalla bocca reticente dell'ultimo tra i sopravvissuti. Ed è qui che la narrazione si frange nella tensione di un duplice arco narrativo: la storia di Melville, dell'ossessione che lo lascerà logoro, immiserito e sconosciuto a vagar tra le dogane per un misero salario, e il racconto del folle naufragio, tutto teso e dal vigore marinaresco.
Se pure esiste un equilibrio capace di orientare una così difforme materia narrativa, è certo che Howard l'abbia mancato. Poco o nulla ci affascina in questo Melville cortese e perplesso - più prossimo al John Keats di Jane Campion - che siede in silenzio, prende appunti e sgrana gli occhi all'udire della balena. Il reciproco scambio di confessioni col marinaio avanza senza attriti e lascia l'impressione di una cornice sbrigativa, quasi al montaggio - e in sala - si fosse già impazienti di tornare al naufragio. Che occupa la gran parte del metraggio e si affida al naturale estro da cantastorie, di cui può farsi vanto l'ex rampollo dei Cunningham, sempre abile a imbastire elementari drammaturgie dal forte impianto spettacolare.
Come un direttore del Capodanno viennese, che alla marcia di Radetzky manda al diavolo i tempi della partitura e, spalle all'orchestra, dirige il battimani del pubblico, Ron Howard, indifferente alle finezze di scrittura, sa bene come aizzare l'emotività dei suoi spettatori, e se talvolta eccede in artifici retorici, è pur vero che di rado si è delusi dal ritmo seducente dei suoi feuilleton. Non fa eccezione questo "Heart of the Sea", in cui il regista oppone all'epica dei motivi biblici, alle dissertazioni zoologiche, alle lungaggini descrittive che sostanziano il febbrile poema melvilliano, quel gusto per l'avventura marittima, che troviamo nei primi scritti dell'autore di "Moby Dick", resoconti più o meno fantasiosi, tra bonacce, tifoni e spiagge ardenti, della sua giovinezza trascorsa tra baleniere e navi da guerra.
Siamo, infine, all'epicentro del film: le vicende di un'avida ciurmaglia a caccia di balene. Nient'altro, nessun Leviatano a incarnare le sembianze di un male assoluto. A dispetto delle attese (e, purtroppo, delle intenzioni), il capodoglio che viene a turbare il progetto venatorio dell'Essex è più vicino allo squalo di Spielberg, che alla creatura di Melville. Più propriamente, lo si dovrebbe forse assimilare a King Kong, nel suo voler essere una simbolica eversione della sfrenata cupidigia indotta dal Capitale.
Spiace, dunque, che si sia cercato un instabile compromesso coi temi melvilliani, perché quando il film vi rinuncia per darsi interamente all'avventura, lì raggiunge i suoi momenti più alti. Cade, invece, a più riprese, quando indugia sui caratteri e si impone di scovare abissi inesistenti in figure dallo sviluppo bidimensionale. Non stupirebbe che Ron Howard, giunto alla regia per il tramite del protagonista Chris Hemsworth, abbia intravisto nel film l'occasione di allungare il discorso avanzato con "Rush", instillando a posteriori nei personaggi del capitano e del primo ufficiale vaghi accenni della medesima rivalità - privata, però, del contesto ossessivo e ridotta, infine, a un conflitto sociale. Del resto Peter Morgan, già autore di "Rush" e "Frost/Nixon", pur non accreditato, ha partecipato alla (sola) revisione dello script ed è curiosa la confessione che il primo ufficiale Hemsworth fa alla moglie, che lo prega di rinunciare al rischioso viaggio: "Non so fare altro". È solo nostra l'impressione che a parlare sia James Hunt?
Un appunto, infine, sulla tecnica. Per la seconda volta Ron Howard ha scelto di colorare il suo film con la tavolozza turneriana di Dod Mantle e, per la seconda volta, ha tuffato l'occhio in un vertiginoso rincorrersi di prospettive impossibili. In "Rush" era lo sguardo del corpo-macchina a emergere e la sua dispersione lungo le linee dello spazio immergeva il pubblico in quell'ebbrezza percettiva indotta dalla velocità, che ben traduce le difficoltà di concentrazione dei piloti. Utilizzata, qui, per sondare il cuore delle profondità oceaniche, la medesima tecnica, pur regalando un efficace stordimento nelle scene in mare aperto, si afferma come presenza capillare, mossa più dall'inerzia di un facile gusto che dall'applicazione di un progetto ragionato. Ci coglie, allora, il dubbio che una deriva formalista sia dietro l'angolo, ma crediamo che Ron Howard saprà scansarla, riaffermando una volta di più il suo prezioso - e tanto più prezioso in quanto raro - ruolo di menestrello del cinema contemporaneo.
cast:
Chris Hemsworth, Cillian Murphy, Tom Holland, Ben Whishaw
regia:
Ron Howard
titolo originale:
In the Heart of the Sea
distribuzione:
Warner Bros.
durata:
121'
produzione:
Warner Bros., Imagine Entertainment, Village Roadshow Pictures
sceneggiatura:
Charles Leavitt
fotografia:
Anthony Dod Mantle
scenografie:
Mark Tildesley
montaggio:
Daniel P. Hanley, Mike Hill
costumi:
Julian Day
musiche:
Roque Baños