La comicità moderna americana deve molto alla stand-up comedy, in cui il comico in piedi di fronte a un pubblico interpreta monologhi sagaci, sarcastici, pieni di freddure e non sense. Se Woody Allen ne è uno dei maestri riconosciuti, il modello ispiratore dagli anni 70 in poi è stato Lenny Bruce per le gag autobiografiche infarcite di scurrilità e violenza verbale, dove le parole rasentavano la continua presa in giro di se stesso e degli altri arrivando all’offesa.
Dal teatro alla televisione il passo è stato breve, soprattutto grazie al “Saturday Night Live” che dal 1975 in poi è stato una vera e propria fucina di talenti di cui molti sono poi passati sul grande schermo (tanto per citare i nomi dei primi programmi: John Belushi, Dan Aykroyd, Chevy Chase, Bill Murray, Eddy Murphy, Billy Cristal…).
Tra gli ultimi abbiamo il giovanissimo Pete Davidson (nato il 1993) protagonista, co-sceneggiatore e co-produttore de “Il re di Staten Island” di Judd Apatow. L’ultima pellicola del regista americano non mostra però la comicità del giovane attore (e questo è forse il suo grande limite), ma racconta la sua vita (con un taglio biografico). Il personaggio interpretata d Davidson, Scott Carlin, è orfano di un padre pompiere – nel film morto in un incendio per salvare due persone, nella realtà deceduto durante il crollo di una delle Torri Gemelle durante l’attacco terroristico a New York dell’11 settembre 2001. A parte questo dettaglio e alcuni eventi romanzati, “Il re di Staten Island” non si discosta molto dalla biografia di Davidson. Scott Carlin è un ragazzo borderline e disadattato, fumatore di marjuana, che passa il tempo con un gruppo di amici e fa sesso con la sua amica d’infanzia, vive in casa della madre infermiera e si rapporta con una sorella minore che il padre non l’ha mai conosciuto.
Appare strano che un giovane comico – pur molto conosciuto in patria per i suoi spettacoli in teatro e in televisione – e con pochissima esperienza di cinema abbia già un ruolo da protagonista in un film dedicato alla sua vita. Ma se l’elemento biografico nella sceneggiatura si deve al suo contributo, per il resto “Il re di Staten Island” è un film di Apatow che prende in prestito le vicende del ragazzo per mettere in scena una delle sue commedie. Apatow conosce molto bene questo mondo e lo stile è lo stesso di sue opere precedenti. Più che a “40 anni vergine”, dove il lato stralunato era predominante, Apatow continua nei suoi ritratti di famiglie e individui – come in “Funny People” e “Questi sono i 40” – tra il drammatico e la commedia, personaggi in cerca di una strada oppure a compiere i primi bilanci in momenti di svolta.
In “Il re di Staten Island” ciò avviene quando la sorella Claire (Maude Apatow, figlia del regista), diplomatasi, parte per il college e la madre Margie (Marisa Tomei), dopo tanto tempo, intreccia una relazione sentimentale con un uomo, il pompiere Ray Bishop (Bill Burr, altro comico), che si scoprirà poi aver conosciuto il padre. Scott vorrebbe fare il tatuatore e passa a esercitarsi disegnando tatuaggi su se stesso, agli amici, a chiunque gli si offra. Tenta persino di farlo a un bambino, il figlio di Ray, e le violente rimostranze del padre nei confronti di Margie è la causa che li farà incontrare.
Apatow si concentra sul personaggio di Pete Davidson-Scott Carlin, sul suo essere in perenne conflitto con il mondo intero, dissociato per il trauma della perdita del padre e per il lutto mai elaborato. Come tutte le commedie, se si arriva allo scontro verbale e fisico con Ray e alla cacciata di casa attraverso il rifugio nella stazione dei pompieri dove lavora Ray, vedremo un riavvicinamento tra i due e un ritorno dalla madre. Scott è un adolescente mai cresciuto che tramite i compagni del padre – tra cui spicca l’anziano pompiere interpretato da Steve Buscemi - riesce in qualche modo a smussare l’irrisolutezza e immaturità e un po’ come il personaggio di Steve Carrell in “40 anni vergine”, Scott compie un coming of age ritardato, bloccato in uno stadio emotivo infantile dal giorno della perdita della figura paterna.
L’aspetto più interessante di “Il re di Staten Island” è proprio questo continuo miscuglio tra vita reale e finzione, dove il racconto di un microcosmo familiare è un modo per il regista di mettere in scena una way of life minimale e quotidiana, in cui ci si può riconoscere in un mondo ormai globalizzato dove la rappresentazione per sineddoche di Staten Island è quella di un quartiere periferico e provinciale di una qualsiasi metropoli occidentale. “Il re di Staten Island” si rivela un film piacevole, dove sappiamo già che il protagonista avrà successo e si affermerà nella vita (reale), ma che rimane però ancorato a una visione superficiale e divertita senza mai veramente graffiare come la comicità di uno stand up comedian alla Davidson. Comicità che viene sempre citata e preannunciata, ma mai resa visibile.
cast:
Pete Davidson, Marisa Tomei, Bill Burr, Maude Apatow, Steve Buscemi
regia:
Judd Apatow
titolo originale:
The King of Staten Island
distribuzione:
Universal, Amazon Prime Video, Tim Vision, Rakuten Tv, Chili, Google Play
durata:
136'
produzione:
Apatow Productions, Perfect World Pictures, Universal Pictures
sceneggiatura:
Judd Apatow, Pete Davidson, Dave Sirus
fotografia:
Robert Elswit
scenografie:
Kevin Thompson
montaggio:
William Kerr, Brian Scott Olds
costumi:
Sarah Mae Burton
musiche:
Michael Andrews