Paolo, trentenne gay con un passato doloroso alle spalle, conduce una vita deprimentemente ordinaria: un appartamento spoglio, un lavoro monotono, una storia d'amore chiusa da poco. Una sera, tra i corridoi asfittici e caotici di un club per soli uomini della Torino notturna, s'imbatte nella prorompente Mia, sbandata dal cuore d'oro al sesto mese di gravidanza. Si guardano, si sfiorano, lei sviene, lui la scorta in ospedale. "Non lasciarmi sola", chiede la ragazza a metà tra lo spavento e l'incoscienza, senza sapere che anche lui si sente altrettanto smarrito, abbandonato, rifiutato. Animale ferito, diffidente per indole ma allo stesso tempo incapace di disinteressarsene come il pragmatico buon senso comune suggerirebbe, Paolo sceglie di reagire e di mettersi in gioco. Per la prima volta dopo molto tempo, un po' per caso e un po' per sfida, permette a se stesso di farsi coinvolgere, di lasciarsi investire dalla dirompente vivacità della sregolata Mia.
Al suo secondo lungometraggio di finzione, Fabio Mollo, documentarista calabro con curriculum internazionale, mette in scena il proverbiale incontro di due solitudini. Mia e Paolo, infatti, ognuno a suo modo, sono due emarginati bisognosi d'amore, due spostati che non hanno ancora trovato il proprio posto nel mondo. Contrito, represso e remissivo lui, dirompente, infantile e inaffidabile lei, insieme riescono miracolosamente a instaurare una relazione di mutuo soccorso tanto eccentrica e inconsueta, quanto intensa e genuina. Non a caso, persino il loro primo fuggevole contatto nel locale si trasforma subito in un abbraccio salvifico.
È attraverso i loro duetti che "Il padre d'Italia" prende forma e ritmo, si anima di fantasie pulsanti e paure inesprimibili, esplode nella vivacità di sequenze musicali d'impronta dolaniana, come la passeggiata pop-floreale nel paese natio di Mia, e subito si richiude nel candore pudico di una confessione sotto le lenzuola. Il viaggio verso Sud che Mia e Paolo intraprendono diventa così felice metafora di una metamorfosi più intima e interiore: la ricerca di un posto dove stare coincide infatti con un percorso di riscoperta di sé e dell'altro, un'educazione emotiva per provare a smettere di soffrire e imparare a essere, finalmente, pienamente se stessi.
Ma il Sud è niente, come cita il precedente lavoro di Mollo, e niente ha da offrire. Nonostante il tono di melanconica leggerezza, per Mia e Paolo non c'è conforto né facile redenzione: dopo il lungo e giocoso peregrinare, dopo tutte le chimere d'evasione e le utopie di un mondo migliore, i due dovranno infine affrontare gli stessi interrogativi, sfidare le stesse insicurezze che li tormentavano alla partenza. La maternità è un istinto invincibile per ogni donna? Come conciliare il desiderio di omogenitorialità con l'arretratezza del diritto? Cosa è naturale e cosa, al contrario, è contro natura?
"Il padre d'Italia" si concentra tutto sui suoi improbabili protagonisti e sull'evolversi del loro bizzarro, irripetibile ménage, a costo di rinunciare a una visione d'insieme che, forse, avrebbe donato al film più solidità e coerenza. Dopo la presentazione dei personaggi, infatti, la sceneggiatura firmata da Mollo insieme a Josella Porto si fa esilissima e rarefatta, inciampando più volte in tempi morti e ridondanze. Eppure, rincorrendo quel flusso di coscienze che sono i dialoghi tra Mia e Paolo, l'autore riesce a tratteggiare dei piccoli momenti di toccante e straziante tenerezza, scevri da ogni intento polemico o rigidità ideologica.
In questo senso, il film ricorda in molti (s)punti "Tutti i santi giorni", complice anche la presenza dell'attore principale - un Luca Marinelli di ammirevole finezza - e la dinamica tra i protagonisti - con la fiera Isabella Ragonese al posto della sregolata cantautrice Thony. Ma rispetto alla pellicola di Virzì, "Il padre d'Italia" sembra attraversato da un'autenticità più profonda e commovente, mosso da un'urgenza più intima e sincera. Con pudore e senso della misura, Mollo si estranea dalla trivialità del dibattito incancrenito che ha azzoppato l'approvazione piena della Legge Cirinnà in Parlamento meno di un anno fa. Rinuncia a qualsiasi pretesa sociologica e ai toni da pamphlet di denuncia per imbastire, piuttosto, una favola fievole e delicatissima, sì, ma anche sorprendentemente onesta e calorosa. Una favola che, all'indomani della sentenza del tribunale di Trento che ha stabilito la prevalenza della volontà di cura sul legame biologico, assume una ottimistica concretezza e permette di volgersi al futuro con sguardo fiduciosamente benevolo e pacificato.
cast:
Luca Marinelli, Isabella Ragonese, Mario Sgueglia, Anna Ferruzzo, Federica De Cola, Miriam Karlkvist
regia:
Fabio Mollo
distribuzione:
Good Films
durata:
93'
produzione:
Bianca, Rai Cinema
sceneggiatura:
Fabio Mollo, Josella Porto
fotografia:
Daria D'Antonio
montaggio:
Filippo Montemurro
musiche:
Giorgio Giampà