Forse è proprio questo il passo più saggio e logico per Paolo Virzì. Dopo aver realizzato i due film più ambiziosi e complessi della sua carriera ("
Tutta la vita davanti", ghignante spaccato sul degrado culturale-sociale dell'Italia dei duemila, e "
La prima cosa bella", ritratto dolceamaro e autobiografico di una madre incosciente e dei suoi figli, sospeso tra malinconia e rabbia), il regista toscano sceglie di ripartire da un progetto "piccolo" e intimista.
Un'opera che parla di sentimenti elementari, realizzata con un budget ristretto e interpretata da un cast di attori semi esordienti (come la protagonista Antonia, interpretata dalla musicista Federica Victoria Caiozzo, in arte Thony, una rivelazione) o poco noti al pubblico (Luca Marinelli, già visto ne "
La solitudine dei numeri primi"). E fa centro ancora una volta. Ispirandosi al romanzo "La generazione" di Simone Lenzi (
vocalist dei
Virginiana Miller, che realizzano il bel
brano che scorre sui titoli di coda), che cura la sceneggiatura assieme al regista e al sodale Francesco Bruni, Virzì abbandona di nuovo la sua Livorno per la capitale, e mette in scena la storia di una coppia "tipo": lei, focosa sicula, ex
chanteuse (a metà via tra
Cat Power ed Elisa) scompigliata, impiegata in un salone per noleggio auto, lavora tutto il giorno; lui, toscano ed impacciato, erudito e goffo, fa il portiere di notte in un grand hotel del centro. La storia di due anime solitarie ed emarginate che si incontrano e trovano nella forza della loro unione il coraggio per andare avanti.
Non è un caso, o un piatto regionalismo, la scelta di fare dei personaggi che ruotano attorno alla "coppia", delle simpatiche macchiette (dai vicini "coatti" e volgari, ai genitori di Antonia, esemplificazione ai limiti della caricatura dei parenti meridionali iper protettivi), ma è un espediente per sottolineare l'unicità e la solidità del legame tra Guido e Antonia. Una coppia tutto sommato razionale, amorevole e confortevolmente metodica nelle sue abitudini (lui torna dal lavoro ogni mattina, la sveglia, fanno l'amore e poi lei esce di casa), contrapposta ad una realtà fatta di personaggi svitati, sopra le righe, e una società che sembra costantemente negare la realizzazione delle proprie ambizioni (Guido avrebbe potuto diventare un professore universitario negli Stati Uniti, Antonia sognava di sfondare come musicista, entrambi svolgono lavori noiosi e ordinari che disprezzano). E' Antonia, con il suo "improvviso" desiderio di concepire un figlio, a spezzare la routine di questa vita forse troppo "perfetta". Ma non tutto va secondo i piani, e le difficoltà della ragazza nel rimanere incinta mettono in crisi l'unione tra i due. Virzì, con il consueto brio narrativo, sonda la vita quotidiana di questa originale coppia, e, quasi come in un dramma uscito dalla New Hollywood, fa vivere la vicenda attraversi piccoli gesti, situazioni ordinarie e quotidiane, attraverso cui si ride (lo spermiogramma di Guido, i buffi medici che assistono Antonia durante i suoi tentativi di rimanere incinta), si piange, ci si identifica. E il finale, per quanto lieto e quietamente ottimista, in linea con la tradizione della commedia "all'italiana", di cui il regista è uno dei pochi validi eredi, non cancella il retrogusto amaro di questa commedia in cui "nonostante tutto", la vita va avanti, e va presa così com'è.
"Tutti i santi giorni" non cambierà la storia del nostro cinema, e non ha nemmeno l'ambizione di farlo, per fortuna, ma è una pellicola sincera, mai scontata, cosa rara oggigiorno, che in un mondo ideale (magari lo stesso in cui ogni canzone dei Virginiana Miller si sarebbe trasformata in una hit radiofonica) dovrebbe ottenere il riconoscimento di pubblico che merita.