Un giovane scrittore che non maschera il desiderio di liberarsi da un esordio letterario d'imprevedibile, e ingombrante, successo. Un cineasta che non maschera come quello stesso libro gli sia giunto attraverso i canali di logiche produttive allora estranee alle sue aspirazioni. Paolo Giordano e Saverio Costanzo. "La solitudine dei numeri primi".
Approdata nelle sale a un giorno di distanza dalla sua presentazione, in concorso, a Venezia, l'attesa opera terza del regista romano non potrà esimersi dall'affrontare le forche caudiche dei milioni di lettori che, in Italia, hanno amato il romanzo di Giordano, fino a eleggerlo oggetto di culto editoriale e affettivo. E quasi a voler stornare preventivamente le critiche malevole spesso sollevate da trasposizioni su pellicola di libri che contano, Costanzo gioca d'anticipo su almeno due aspetti nodali dell'adattamento, per il grande schermo, di un testo letterario. Da un lato, stipula un'assicurazione contro l'accusa che, più dal pubblico, che dalla critica, potrebbe venirgli, di un'approssimazione per difetto dei contenuti del libro. E per non incorrere in quell'impressione che accompagna recenti trasposizioni di best-seller nazionali, si pensi a "Un giorno perfetto" di Ozpetek, sfoltimento esangue della potente materia narrativa di Melania G. Mazzucco, o "Come Dio comanda" di Salvatores, un Ammaniti scolorito in lavatrice, (ma si potrebbe nuotare controcorrente fino a sommi capolavolari del cinema italiano, uno fra tutti "Il Gattipardo" di Visconti), il regista sceglie di appalesare, nell'ostentata sovversione dell'ordine diegetico e dell'architettura del libro, che il film è qualcosa di radicalmente altro, che dal modello desume solo una pallida ispirazione per inseguire obiettivi propri. E che, di conseguenza, anche la sottrazione gode di piena dignità. D'altro canto, per non incappare nel rimprovero, più probabile da parte dei critici, di un film che, inconsapevole di che cosa sia il linguaggio cinematografico, si adagia prono sulla sintassi letteraria, sguinzaglia una complessa strategia di soluzioni e trovate che affermano il primato gerarchico della mise en scène e dell'apparato estetico, in un'opera che risulta cinefila e decostruzionista al contempo. Forte, Costanzo, dell'appoggio, in sede di sceneggiatura, di un Paolo Giordano fiducioso co-autore del copione.
Le premesse sembrerebbero buone. E invece, "La solitudine dei numeri primi" (film) dimostra come da premesse autoriali valide (e si aggiunga pure, da un romanzo bellissimo e da un regista talentuoso) possa scaturire un risultato che riflette le stonature e gli errori dell'operazione insensata che lo ha generato. E che narra solo di un'occasione sciupata. Le vicende struggenti che incatenano Mattia e Alice, due numeri primi gemelli, vicini abbastanza per toccarsi, ma ineluttabilmente separati dal numero pari che si frappone tra loro, a un destino d'alienazione e di tormenti, colpevole lui, bimbo d'intelligenza superiore alla norma, del tragico smarrimento della sorella ritardata, vittima lei, di un incidente sportivo (e di un padre mostruoso) che l'ha resa claudicante, le vicissitudini della loro amicizia adolescenziale e giovanile, di un amore sui generis, abortito dal cumulo di dolore che trascinano con sè, dall'incomunicabilità che li ha resi due marziani, tutto ciò, alias un materiale psico-drammatico cospicuo e avvincente, viene ridotto in poltiglia da un lungo elenco di scelte cine-deliquenziali. Fin dai titoli di testa, fin dalla sequenza prologo in cui la macchina da presa s'aggira sul palco e nel backstage di una recita scolatica, tra bimbi soffocati da costumi fagocitanti, illividiti da una luce bluastra e sovrastati da una musica creepy, il regista ci annuncia che non vedremo né un melò né un saggio d'intimismo bergmaniano. Ma che la storia avrà le tinte dell'horror. Nulla di male, fin qui. Ma gli effetti collaterali si lasciano presto avvertire. Ostinato nel difendere il registro stilistico prescelto, Costanzo satura le quasi due ore di durata del lungometraggio del più vasto campionario di clichès orrorifici a disposizione, nebbia pioggia buio corridoi oscuri, oscillando tra atmosfere visive e sonore pseudo-argentiane e più elevati riferimenti (addirittura a Kubrick, nel labirintico hotel di montagna) in odore di pleonasmo. E incagliandosi, spesso e volentieri, in elementi che hanno dell'imbarazzante, dalla gratuita comparsata di Filippo Timi travestito da clown, novello It dal ghigno ferale, alle "incursioni" sgraziate nel noir d'altri tempi, vedi il quadro della sorellina scomparsa o i numerosi specchi (interi e infranti) che sagomano le scenografie. Mentre Isabella Rossellini, a suon di occhi sgranati ed espressioni atterrite, sembra fare il verso a mamma Ingrid in "Angoscia". Se è un'impresa metalinguistica di desemantizzazione dei tòpoi del genere quella tentata, il tentativo, per l'appunto, fallisce abbastanza miseramente, e si arena nella maniera. In una mistura frasornante di tutt'un po' nella quale è facile perdere di vista l'anima della storia, ossia i personaggi. Non gli attori, bravissimi, che ne vestono i panni, siano la strepitosa Alba Rohrwacher e il promettente Luca Marinelli, volti e corpi (scarnificati o inflacciditi coraggiosamente come da sceneggiatura) dei protagonisti adulti, o i giovanissimi interpreti di Alice e Mattia bambini e liceali. Non gli attori nella loro fenomenica, esteriore apparenza, ma i personaggi nella loro interiorità, nel male morale che li tiranneggia. Se, infatti, la grandezza di Giordano è consistita nel ritrarre, su carta, un uomo e una donna umani troppo umani nella loro fragilità e solitudine, Costanzo, incapace di dotare i suoi personaggi di un'equivalente profondità psicologica, li trasforma in due phenomena (!) ai limiti del paranormale, due macchiette esanimi, due biechi congegni meccanici ai quali è impossibile affezzionarsi. Tanto che la scena di Mattia e Alice in automobile (naturalemente di sera e sotto un acquazzone), l'unica a elevarsi al di sopra della mediocrità o del cattivo gusto, sembra un dono venuto da un'altra dimensione. Il montaggio virtuositico della bellocchiana Francesca Calvelli, che abbonda in alternati e galoppate da videoclip, è, in fondo, la spia più fedele delle incoerenze che frastagliano il film; il quale reagisce alla narrazione lineare del romanzo con un continuo rimbalzo fra piani cronologici disparati, ma, giunto con affanno a tre quarti, e, forse, incapace di proseguire sulla stessa linea, ripiega sulla più banale modalità di flash back per svelarci l'origine del trauma di Mattia. E, da lì in poi, precipita frettoloso verso un finale (consolatorio) di cui non si capisce proprio il senso, e che liquida in malo modo l'epilogo assai più raffinato e metaforico del romanzo.
I nodi (irrisolti) dell'opera seconda di Costanzo, "In memoria di me", anch'essa connotata da una discutibile inclinazione al gotico, vengono al pettine in quest'ultima fatica. E segnano una distanza progressivamente maggiore dal mirabile esordio di "Private", Pardo d'Oro a Locarno. Sia per i critici che per gli spettatori, in definitiva, meglio è tornare alle pagine di Giordano, e dimenticare la scivolata di Costanzo.
cast:
Filippo Timi, Isabella Rossellini, Tommaso Neri, Arianna Nastro, Martina Albano, Luca Marinelli, Alba Rohrwacher
regia:
Saverio Costanzo
titolo originale:
La solitudine dei numeri primi
distribuzione:
Medusa
durata:
118'
produzione:
Offside, Les Films du Tournelles, Bavaria Pictures, Le Pacte, Medusa Film, Sky Cinema
sceneggiatura:
Saverio Costanzo, Paolo Giordano
fotografia:
Fabio Cianchetti
scenografie:
Antonello Geleng, Marina Pinzuti Ansolini
montaggio:
Francesca Calvelli
costumi:
Antonella Cannarozzi
musiche:
Mike Patton