È il 1936 quando, ispirato da un soggetto di Ashelbé, Julien Duvivier inizia la produzione del suo prossimo film, "Les nuits blanches". Alla sua uscita nel 1937, sotto le pressioni di produttori e distributori, la pellicola si intitolerà "Pépé le Moko" ma l'originario riferimento a Dostoevskij può comunque offrirci l'iniziale chiave di lettura per comprendere meglio uno dei capolavori fondamentali della filmografia del maestro di Lille.
Duvivier, l'incompreso figlio del suo tempo
Sulle pagine di "Domus", in un numero del 1945 dedicato a "Il bandito della Casbah", Glauco Viazzi ha posto efficacemente a fuoco la matrice letteraria dell'opera di Duvivier.1 Nonostante l'attenzione per la tradizione letteraria, francese e non, fosse uno dei tratti distintivi della produzione cinematografica transalpina degli anni 30 (basti pensare ai numerosi adattamenti di opere di Zola, Balzac e Dumas da parte di autori coevi a Duvivier come Renoir, Carné e Gremillon), il caso specifico di Duvivier è di particolare interesse.
Viazzi osserva come un'attenta analisi della sua filmografia anteguerra metta in luce la prepotente tensione al lirismo di film come "La bandera" o "La bella brigata". Non è stato facile per Duvivier convivere con questa sua peculiarità senza disperdere in eccessivi sentimentalismi e virtuosismi visivi la propria ispirazione. Ma, laddove questa componente è mitigata dal suo spiccato senso del racconto, dalla sensibilità con cui tratta i suoi personaggi in un equilibrio perfettamente coordinato fra la loro situazione psicologica e l'ambiente circostante, è lì che il cinema di Duvivier raggiunge la sua eccellenza. È sicuramente questo il caso di tutta la sua produzione dal 1935 al 1939, di cui "Il bandito della Casbah" rappresenta l'ineguagliabile vetta.
Il fatto che a questi stessi anni coincida anche l'age d'or del cinema francese, non fa altro che inserire coerentemente Duvivier all'interno della corrente del Realismo Poetico che ha saputo così ben fotografare il clima culturale della Francia dell'epoca. Siamo in pieno periodo del Fronte Popolare ed è alle inquietudini, ai bisogni e ai problemi del pubblico francese di quel periodo storico, all'alba della Seconda Guerra Mondiale, che l'industria cinematografica d'Oltralpe ha saputo dar corpo e fornire risposte.
Però, come osserva Pierre Billard (al quale dobbiamo la prima e tardiva monografia dedicata al maestro)2, così come gli adattamenti letterari di Duvivier hanno intrapreso un percorso ideale che va dal naturalismo al populismo (Zola, Renard, Simeon), così il suo cinema, e non solo il suo, può essere letto come una naturale progressione verso il Populismo Tragico, una nomenclatura che il critico francese prediligeva rispetto a quella, secondo lui troppo aleatoria, di Realismo Poetico.
In seguito analizzeremo i connotati di questa classificazione.
Un noir metropolitano
Il film parla delle vicende di Pepé Le Moko, un criminale parigino rifugiatosi ad Algeri per sfuggire alla polizia francese; nella capitale algerina è stato accolto nel labirintico quartiere popolare della Casbah, di cui è diventato il padrone incontrastato instaurando, grazie ai suoi numerosi alleati, un sistema di omertà e connivenza che ne rende impossibile la cattura.
L'incipit del film è particolarmente significativo: la sequenza si apre nel commissariato in cui, da Parigi, sono arrivati i rinforzi per dare man forte alle forze dell'ordine locali e riuscire finalmente ad arrestare Pepé, cui presta il volto il divo di punta dell'industria cinematografica transalpina dell'epoca, Jean Gabin. Alla richiesta di chiarimenti, da parte dei francesi, circa le difficoltà che implicano la cattura del fuggiasco, il commissario si lancia in una descrizione dettagliata del quartiere della Casbah, sottolineando la natura ostile delle sue strade e indecifrabile dei suoi tetti, nido di un variegato dedalo di umanità.
"Infinita, brulicante, misteriosa, tumultuosa, di Casbah non ve n'è una, ve n'è cento, ve n'è mille!". La voce fuori campo descrive la nuova casa di Pepé, mentre scorrono le immagini della caotica città e dei suoi abitanti, al ritmo incalzante della musica di Mohamed Yguerbouchen.
La straordinaria efficacia della sequenza fa sì che il bandito si sia materializzato davanti agli occhi dello spettatore pur senza essere stato ancora mostrato. Descrivere Pepè significa innanzitutto mostrare l'oscura rete di cunicoli che lo protegge, le donne che frequenta, gli uomini di ogni razza con i quali ha a che fare ogni giorno, le porte dentro le quali si nasconde, i tetti attraverso i quali scappa. Si innesca così un meccanismo di immedesimazione totale fra il protagonista del film e l'ambiente che lo accoglie, in un gioco di rimandi tra psiche del personaggio e composizione della messinscena che, come sottolineato da Viazzi, è stata la firma più riconoscibile dei migliori lavori di Duvivier. I motivi di interesse di questo memorabile incipit non si esauriscono a un ambito prettamente narrativo. L'estetica del Realismo Poetico è legato a doppio filo con le luci, la nebbia e i volti dello scenario urbano, in particolar modo quello parigino. Questo è sicuramente un retaggio dell'esperienza ancora vivida del periodo delle avanguardie; ma, laddove Clair nel suo "Parigi che dorme" del 1925 o Vigo in "A proposito di Nizza" nel 1930, tratteggiano l'ambiente metropolitano come un gigantesco giocattolo3 entro il quale chi si muove non è altro che un piccolo ingranaggio di un più complesso meccanismo, quella del Realismo Poetico è una città che pullula di umanità e che nasconde storie dietro ogni angolo. È curioso, quindi, notare come Duvivier trasli con disinvoltura questo approccio, che aveva impresso a fuoco i vicoli di Parigi nell'immaginario dello spettatore dell'epoca, in un contesto cittadino completamente nuovo come il formicaio umano della Casbah, pur mantenendo intatte le peculiarità che avevano reso così innovativa la componente urbana nel cinema francese dei primi anni 30. È emblematica, a tal proposito, la sequenza in cui la polizia francese e quella algerina, ricevuta la soffiata di un traditore, tentano un iniziale assalto a un presunto nascondiglio di Pepé. La sparatoria che ne deriva (in una scena che influenzerà molto Pontecorvo in un film molto diverso, ma ambientato nella stessa città come "La battaglia di Algeri") mostra tutta la potenza ammaliante che i vicoli della Casbah, interamente ricostruita in studio, sanno esercitare nelle sapienti mani di Duvivier.
Nonostante l'azione si svolga nella metropoli maghrebina, il richiamo della prediletta capitale francese non è assente. Sarà, anzi, proprio Parigi, incarnata nella turista Gaby in vacanza ad Algeri con un accompagnatore, a rappresentare l'anelito di libertà, l'attrazione fatale che porterà Pepé a commettere il decisivo errore che porterà alla sua cattura. La scena del primo incontro tra Pepé e Gaby (una bellissima e sfortunata Mireille Balin), è uno degli esempi, in questo film spesso legati al convergere di queste due figure, in cui la tensione al lirismo di Duvivier giunge a picchi poetici sublimi. È impossibile, infatti, restare impassibili all'umanità del bandito, "simpatico e terribile", ma improvvisamente disarmato alla vista della ragazza. Il campo e controcampo tra i due rivela come l'attenzione di Pepè venga immediatamente attratta dai gioielli che Gaby indossa, ma non per l'indole che porterebbe qualsiasi malfattore a guardare con cupidigia delle pietre preziose, bensì per via di ciò che quei gioielli rappresentano. Quegli orpelli, il cui stile Pepè conosce bene, connotano quella ragazza come parigina e perciò simulacro di tutto quell'immaginario che il malvivente sente ormai irrimediabilmente lontano, intrappolato com'è nell'esilio dorato della Casbah.
Singin' on Heaven's door: Il Populismo Tragico
Tornando alla classificazione di Populismo Tragico, osserviamo quali sono le caratteristiche principali di questa corrente e come il film in oggetto possa esserne considerato una delle sue massime espressioni. A tal proposito può essere utile analizzare la scelta dei termini che definiscono questa stagione cinematografica.
A spingere Billard verso la definizione di populismo è sicuramente il modo con il quale tanti autori di quel periodo attinsero a piene mani da elementi propri della cultura popolare per dare tridimensionalità alle loro storie. È il caso della selezione delle colonne sonore in film come "Una gita in campagna" di Renoir del 1936 o di "Alba tragica" di Carné del 1939, così ricchi di rimandi musicali che solleticano l'immaginario di un pubblico trasversale, con il pregio di stimolare facilmente le più disparate corde emotive. In "Il bandito della Casbah" non viene meno questo tipo di approccio e, sia che si tratti di musica extradiegetica, piena di motivi dalla forte caratterizzazione ambientale (l'incedere insistente dei tamburi ci catapulta istintivamente in scenari nordafricani), sia che si tratti di musica diegetica, infarcita di strofe familiari agli spettatori meno abbienti, l'imperativo del direttore musicale Vincent Scotto è di conferire alla pellicola una dimensione quasi da idillio bucolico.4
I due momenti in cui, nel film, la musica diventa assoluta protagonista, rispondono a queste caratteristiche: una sfumatura nazional popolare colora il canto di Pepé che, dalle terrazze della Casbah, allieta la sua gente con un'ode alla sua Parigi, appena rivista negli occhi di Gaby; una vena malinconica, invece, anima la performance della moglie del suo amico ricettatore che, cantando, ricorda i tempi andati in cui dominava la scena del varietà nei boulevard della capitale, facendosi carico di un sentimento comune anche a Pepé, esule in terra straniera e con i giorni migliori ormai alle spalle. In entrambi i casi è la musica del popolo a far da padrona.
Utile è anche sottolineare come, in quel periodo storico, fossero ormai maturi i tempi del Fronte Popolare, una stagione politica che sicuramente ha avuto un peso nel definire il sentire comune della società e del cinema, soprattutto. Tale influenza la possiamo riscontrare nel forte senso di comunità che permea la società messa in scena nei film dell'epoca, e "Il bandito della Casbah" non fa eccezione. Il microcosmodel brulicante quartiere ha di fatto adottato Pepé, accogliendolo in seno edandogli protezione al punto tale che la sua sicurezza è totalmente dipendente dallasua permanenza all'interno della Casbah. L'abbandono del sobborgo, in effetti, coinciderà con la fine del nostro.
Il destino che attende Pepé è un destino nefasto e la sua storia di redenzione non avrà un lieto fine. È una sorte comune a tutti i protagonisti dei film di quegli anni e ciò ha fatto da facile sponda per l'aggettivazione tragica di questo populismo cinematografico.
Il commissario Slimane, sfaccettata e complessa figura di nemico/amico del protagonista, compreso che l'invincibilità di Pepé coincide con l'inespugnabilità della Casbah, intuisce che l'infatuazione per Gaby può essere l'unico volano per attirare il fuorilegge lontano dalla confort zone del suo quartiere d'adozione. Facendogli sapere, infatti, che la ragazza è in procinto di partire alla volta della Francia a bordo di un piroscafo, Pepé decide repentinamente che i suoi giorni da esule sono finiti e che si imbarcherà con Gaby per fare ritorno a casa insieme a lei.
L'intera sequenza finale è una straordinaria pagina di storia della settima arte. Si apre con la scena della fuga dalla Casbah per arrivare al porto di Algeri. Gli occhi allucinati di Jean Gabin che cercano febbrilmente la fine del labirinto in cui è stato prigioniero per due anni; il ritmo crescente e forsennato della musica che accompagna i dettagli dei passi svelti di Pepé; il montaggio, che sale di intensità man mano che le porte della Casbah si avvicinano; tutto in questa scena concorre a far scaturire un senso di ansia e impazienza che, a distanza di quasi trent'anni, troverà un adeguato termine di paragone nella folle corsa di Tuco nel cimitero che sarà l'arena del triello finale in "Il buono, il brutto e il cattivo". Una volta giunto sulla nave, una sfortunata concatenazione di eventi non gli permetterà di incontrare la sua amata, bensì lo porterà a finire in manette, arrestato dagli uomini di Slimane. Prima di essere condotto in prigione, Pepé chiede al commissario di poter vedere la nave che parte, portandosi con sé un triste carico di sogni infranti. Sul ponte c'è la bella Gaby. A questo punto i due sguardi dovrebbero incrociarsi, se solo la ragazza guardasse in direzione del porto; ma Pepé, il re della Casbah, non può che essere nel suo regno, fiero e guascone come sempre. È lì che, erroneamente, la giovane cerca con lo sguardo il suo amato, a sugellare definitivamente la completa fusione tra il bandito e la sua tana. Ma Pepé ha ormai rotto questo connubio e si è reso vulnerabile; ammanettato e aggrappato al cancello chiuso del porto sembra già inerme dietro le sbarre. Il suo grido disperato, che invano invoca il nome di Gaby, viene sovrastato dalla nave in partenza e a lui non resta che estrarre un coltello dalla tasca e togliersi la vita.
Il "brillante tecnico" del cinema
"Il bandito della Casbah" è il film in cui Divivier dà maggiormente sfoggio di tutto il suo talento ma anche della sua esperienza da navigato mestierante del cinema sopravvissuto brillantemente allo scossone dell'avvento del sonoro. Uno dei motivi del suo successo risiede principalmente nell'estrema cura nella direzione degli attori. È impossibile, a tal proposito, non notare come il Gabin che si è presentato a Duvivier nel 1935 per le riprese di "La bandera", fosse sì una star ormai affermata dell'industria cinematografica francese, ma lontano dall'essere l'attore poliedrico e frastagliato che, due film più tardi, consegna il personaggio di Pepé Le Moko ai manuali di storia del cinema. Il sodalizio tra i due sarà lungo e fruttuoso e farà la loro fortuna, sia dal punto di vista artistico che commerciale. L'amicizia instauratasi tra i due li porterà persino a firmare spesso la produzione dei loro film, occupandosi dell'acquisto dei diritti dei romanzi da riadattare. Per sua stessa ammissione, Gabin parlerà dell'incontro con Duvivier come di quello decisivo per la sua carriera5, apprezzandone sia la professionalità (pare che fosse solito lavorare con l'orologio in mano per controllare in prima persona che fossero rispettati i tempi) che per il valore aggiunto che la sua sola presenza rappresentava per tutte le maestranze artistiche presenti sul set. Non solo per gli attori, infatti, ma per tutti gli addetti ai lavori il maestro rappresentava uno sprono, severo ma stimolante, a spingere sempre un po' oltre la propria arte. Può essere significativo il caso degli operai degli studi Pathé Cinéma i quali, sotto la guida dello scenografo Jacques Krauss e dello stesso Duvivier, ricostruirono interamente in studio i cunicoli del tentacolare quartiere della Casbah e il cui lavoro, come abbiamo già osservato, fu così determinante ai fini della riuscita della pellicola.
Renoir e i suoi fratelli
Duvivier non ha mai goduto di una critica particolarmente indulgente nei suoi confronti. Il motivo di un simile snobismo nei confronti del suo cinema può essere ricercata nella "colpa", mai perdonatagli, dell'incredibile successo commerciale di Don Camillo o nell'etichetta di regista di genere che non è mai riuscito a scrollarsi di dosso a seguito della sua parentesi americana. Ad ogni modo sappiamo per certo che, sia la critica a lui contemporanea, sia la generazione della Nouvelle Vague, che indicava in Renoir il vero e inattaccabile padre del cinema francese, non se l'è sentita di porre Duvivier sullo stesso piano dell'autore di "La regola del gioco", con il quale, eppure, riusciva a rivaleggiare ad armi pari al botteghino. Negando tra i due un equo trattamento, le pagine dei "Cahiers du Cinema" hanno negato per anni a Duvivier il riconoscimento del rango di autore, con tutto quello che comporta tale distinzione. Non volendoci focalizzare troppo sul panorama critico attorno a Duviver (che, se in patria non ha mai incassato attestati di stima, lo stesso non si può dire della critica giapponese, italiana e americana che, al contrario, hanno particolarmente amato il suo lavoro), porremo l'accento sui due principali aspetti che, indicati per decenni come appunti di demerito nella sua produzione, fanno, invece, incontrovertibilmente di Duvivier un autore di rilevanza assoluta nella storia del cinema.
Il primo è la sua capacità di abbracciare praticamente tutti i generi cinematografici, che diventa sicuramente un motivo di pregio nel momento in cui, persino nella commedia più popolare, è riuscito a mantenere intatti sia il suo approccio al lavoro che i capisaldi della sua poetica.
Il secondo è il largo uso della stereotipizzazione nella costruzione dei suoi personaggi. Per osservare meglio come, nel caso di Duvivier, sia più opportuno parlare di archetipi, giungono a sostegno le tesi di Patrick Brion6, che rimodellano i parametri entro i quali sono state mosse le precedenti critiche all'autore di Lille. Basta guardare più da vicino i personaggi de "Il bandito della Casbah" per notare che, è vero che sono tratteggiati in maniera tale da avere in sé tutte le caratteristiche letterariamente e teatralmente tipiche del bandito gentiluomo, della femme fatale, del poliziotto, ecc., ma è innegabile come, a delinearne i risvolti psicologici, non partecipi solo un realismo particolarmente sfaccettato e tridimensionale (la femme fatale è tale perché parigina, il commissario non è solo un antagonista, ma è un amico di Pepé in quanto è l'unico che ha visto in lui qualcosa in più del semplice boss di quartiere), ma anche una caratterizzazione portata alle estreme conseguenze, grazie all'apporto fondamentale di Henri Jeanson nella stesura dei dialoghi, tale da far pensare che, ad esempio, il commissario Slimane non sia solo il prototipo del commissario astuto, bensì che sia il più astuto fra i commissari.
Queste conclusioni, se spalleggiate da Billard quando sostiene che l'ideale trilogia completata da "La bandera" e "La bella brigata" abbia definito gli archetipi del cinema 7, per chi scrive possono persino indurre ad affermare che un certo cinema postmoderno, guardando soprattutto agli anni 90, non è sicuramente una naturale prosecuzione del Populismo Tragico di Duvivier, ma quantomeno che con la sua filmografia possa imbastire un fitto dialogo. Aver imposto simili domande all'attenzione del dibattito critico, seppur quest'ultimo le abbia accolte con colpevolissimo ritardo, unitamente all'aver mosso al riso e alla compassione sincera generazioni di spettatori, sancisce definitivamente il posto de "Il bandito della Casbah" tra le più grandi pellicole del suo tempo.
1 Glauco Viazzi, Il bandito della Casbah, Domus, 1945.
2 Pierre Billard, Gli anni '30 di Julien Duvivier, L'age d'or in Julien Duvivier, Il Castoro, 1996.
3 Giovanna Grignaffini, La città giocattolo: à propos de Paris in Francia anni '30. Cinema, cultura e storia, a cura di Patrizia Dogliani, Giovanna Grignaffini, Leonardo Quaresima, Marsilio, 1982.
4 "L'importanza che Duvivier accorda loro prova che queste canzoni hanno una funzione centrale nel delineare l'area di ‘sensibilità' in cui si muove ed opera. L'esame critico dei sui film deve prendere in considerazione questa sottile ma evidente dichiarazione di intenti. Questo cinema ‘realistico', nel senso di ‘canzoni realiste', si preoccupa ben poco del realismo che si vuole stretta imitazione della vita reale, o rendiconto documentato. Ci troviamo in una dimensione onirica che trascende i dati di base della realtà, per stratificarli, ‘mineralizzarli' in racconti allegorici", citato in Pierre Billard, Gli anni '30 di Julien Duvivier, L'age d'or in Julien Duvivier, Il Castoro, 1996.
5 Raymond Chirat, Visita a Duvivier in Julien Duvivier, Il Castoro, 1996.
6 Patrick Brion, Julien Duvivier, l'incompreso, in Julien Duvivier, Il Castoro, 1996.
7 "Non fosse che per questa ragione, Pepé Le Moko non potrebbe pretendere di creare da solo gli archetipi del cinema. Questo ruolo nella creazione del personaggio-tipo viene svolto dall'intera trilogia", citato in Pierre Billard, Gli anni '30 di Julien Duvivier, L'age d'or in Julien Duvivier, Il Castoro, 1996.
cast:
Jean Gabin, Gaston Modot, Roger Legris, Fréhel , Marcel Dalio, René Bergeron, Fernand Charpin, Saturnin Fabre, Line Noro, Gilbert Gil, Lucas Gridoux, Gabriel Gabrio, Mireille Balin, Paul Escoffier
regia:
Julien Duvivier
titolo originale:
Pepé Le Moko
distribuzione:
Colosseum Film, Dynit
durata:
90'
produzione:
Paris Film
sceneggiatura:
Ashalbè, Julien Duvivier, Jacques Constant, Henri Jeanson
fotografia:
Jules Kruger, Marc Frossard
scenografie:
Jacques Krauss
montaggio:
Marguerite Beaugé
musiche:
Vincent Scotto, Mohamed Yguerbouchen