Lo sappiamo, il cinema di Werner Herzog è una continua sorpresa. Una continua ricerca. Avendo ben chiare delle idee fondamentali come la labile linea che separa realtà e finzione, una poetica volta alla ricerca di una verità estatica cui si accede attraverso immagini vergini, pure, mai viste prima e un ventaglio di tematiche esplorate più volte in sempre nuove declinazioni e sfumature il regista tedesco ha saputo mappare l'arcipelago dell'animo umano con audace e instancabile chiarezza. Lo sappiamo, non dobbiamo dar per scontato nulla quando si tratta di Werner Herzog perché è impossibile prevedere dove ci condurrà al termine del viaggio cinematografico che di volta in volta intraprenderemo insieme. Questo è anche il caso de "L'ignoto spazio profondo", che è la perfetta esemplificazione di un paradigma prettamente herzoghiano: le immagini, certe immagini, immagini reali contengono nel loro cuore vivo più finzione, più poesia di quanto qualsiasi artificio potrebbe farsi carico. Usando da una parte filmati prodotti dalla NASA ripresi all'interno e all'esterno di una spedizione dello Shuttle STS-34 e dall'altra riprese sottomarine, girate da Henry Kaiser, d'una esplorazione sotto i ghiacci del polo sud Herzog compone un poema fantascientifico che narra di un viaggio attraverso lo spazio ed il tempo. Una pura storia di fantascienza che attraverso il vero delle immagini mostrate proietta lo spettatore nella storia fittizia e affascinante di un viaggio verso un mondo lontano, il Wild Blue Yonder appunto. La maestria registica del tedesco compone una nuova odissea spaziale infrangendo completamente ogni regola narrativa e giustapponendo immagini e commento off in un ondivago naufragio verso una terra promessa e irraggiungibile.
In apertura il film è descritto come "A science fiction fantasy" e attraverso una risemantizzazione radicale delle immagine mostrate Herzog trasforma il magma filmico in un oggetto polisemantico, perfetta macchina cinematografica per creare un loop del pensiero che si trova a rincorre realtà e fantasia in un gioco di rimandi e richiami. È allora che ci si mostra in tutta la sua straniante potenza l'ordigno herzoghiano che riesce a dire e mostrare un vero più vero del vero stesso. Una verità ulteriore, sopita al di sotto della superficie delle immagini, finalmente si desta e si impone all'attenzione dello spettatore: un immagine della nostra realtà viene trasformata dall'immaginazione in una immagine fantastica che però ci comunica qualcosa di autentico rispetto alla nostra realtà. È allora che la finzione scientifica si trasfigura in una documentazione in senso stretto del nostro mondo.
All'interno della filmografia herzoghiana possiamo anche leggere "L'ignoto spazio profondo" come ultimo capitolo di una ideale trilogia non-documentaristica insieme a "Fata Morgana" (1971) e "Apocalisse nel deserto" (1992). Il primo segnava i primi passi di un sentiero verso l'oltrepassamento dei confini di realtà e finzione trasfigurando l'Africa in un miraggio ineffabile tra le pieghe della bellezza, della natura aspra e severa. Scardinando i canoni del cinema documentaristico Herzog rinunciava a informare e comunicare per aprirsi piuttosto ad un nuovo modo di dire quello dell'enunciare in modo quasi estemporaneo al fine di ridestare lo sguardo sull'immagine e rivedere l'immagine in modo più autentico, più primitivo. Più puro. Ripulendo le immagini da incrostazioni di significati stratificati dalla nostra cultura il regista tedesco decostruiva il senso del mostrato e apriva il dominio di immagini vergini. "Apocalisse nel deserto" compiva poi un ulteriore passo in questa direzione grazie ad una narrazione che assumeva toni biblici mentre sullo schermo scorrevano filmati risalenti alla prima guerra del golfo e trasformando l'attualità giornalistica, vista e rivista sugli schermi televisivi, in una cronaca tremenda di un mondo destinato al collasso. L'attualità si faceva storia, e poi mito e con la potenza evocativa del linguaggio mitico si trasformava come descrizione crudele di un paesaggio interiore rinchiudendo l'essere umano in un eterno ritorno dell'identico (orrore).
La potenza produttiva del documentario è stata più volte esplorata nel corso della storia del cinema (si pensi a Robert Flaherty, Godfrey Reggio, Chris Marker, ma anche al nostro Vittorio De Seta), ma nessuno come Werner Herzog ne ha mai scandagliato così in profondità le possibilità linguistiche conducendolo tanto al di là del suo potenziale prima conosciuto fino ad arrivare alla perfetta inversione di finzione e realtà, appunto con "L'ignoto spazio profondo". È questo un viaggio filmico di estatica bellezza. Da ultimo è impossibile non menzionare la straordinaria e straniante colonna sonora composta dal violoncellista olandese Ernst Reijseger, in collaborazione col cantante senegalese Mola Sylla e al coro sardo Cuncordu e Tenore de Orosei.
cast:
Brad Dourif, Donald Williams, Ellen Baker, Franklin Chang-Diaz
regia:
Werner Herzog
titolo originale:
The Wild Blue Yonder
durata:
80'
produzione:
Werner Herzog Filmproduktion
sceneggiatura:
Werner Herzog
fotografia:
Henry Kaiser, Tanja Koop, Klaus Scheurich
montaggio:
Joe Bini
musiche:
Ernst Reijseger