Io sono uno non riconciliato con il mondo, sono un autore
che continua la sua opera di resistenza, per cui quelli che si sono,
invece, conciliati, che si trovano all'interno di quel mondo,
per me sono comunque dall'altra parte.
C'è qualcuno che continua a resistere, a provocare,
a proporre, a lanciare delle scosse elettriche sacrosante:
queste sono le persone che stimo.
Le altre non mi interessano.
Paolo Benvenuti
Paolo Benvenuti è uno dei grandi outsider del cinema italiano, regista da sempre alla ricerca dei significati dell’immagine e concentrato sulla propria poetica. Benvenuti non è avvezzo ai compromessi ed è stato, abbastanza misteriosamente, dimenticato anche dalla critica.
Suo padre, Mario Benvenuti, è stato documentarista e fondatore del primo cineclub pisano nonché maestro dei fratelli Taviani che presso di lui iniziarono come assistenti.
Paolo Benvenuti è così cresciuto in mezzo alle pellicole respirando aria di cinema fin da bambino, ma la sua prima vocazione artistica è stata la pittura. Infatti si forma studiando all’Accademia delle Arti di Firenze. Va da sé che questa doppia formazione ha avuto una forte influenza sulla sua visione del cinema, sul suo modo di intendere il linguaggio visivo.
Nella sua formazione vanno citati, non solo per onor di cronaca, due momenti rilevanti che lo influenzeranno moltissimo: il primo risale al 1972 quando è assistente sul set de "L’età di Cosimo de' Medici" di Roberto Rossellini. Il secondo arriva tre anni dopo quando è aiuto-regista di JeanMarie Straub e Danièle Huillet nel film "Moses und Aaron", tratto dall'incompiuta opera lirica di Arnold Schoenberg.
Questi i primi riferimenti del suo cinema rigoroso e didattico (soprattutto per quanto riguarda il maestro italiano) e l'idea di cinema come strumento di educazione integrale. Se ne è scritto molto altrove e quindi qui non ci dilunghiamo, ma il sogno dei film per la televisione di Rossellini è una sorta di utopia a cui guardare ancora con ammirazione. Tanto più in questi anni bui in cui la pochezza dell'offerta culturale in televisione fa da contraltare ad un vuoto contesto socio-politico.
Comunque, per Benvenuti ha valore il senso educativo delle immagini, e il cruccio intellettuale è vivo, per esempio: come si affronta con uno strumento contemporaneo, il cinema, un avvenimento del passato? Etica ed estetica in questo dubbio sono legati strettamente, e Benvenuti lo dice chiaramente in alcune interviste: "Parto dal presupposto che non è possibile giudicare un evento storico, ad esempio il '500, con la strumentazione critica di cui dispone la cultura contemporanea […] Solo se ci sforziamo di leggere un determinato evento con la consapevolezza dell'etica di quel determinato momento storico, possiamo essere in grado di tentare una lettura corretta".
Il passaggio all'opera cinematografica è poi d’obbligo nel sistema coerente del regista pisano: come filmare dunque un evento del passato? Come approcciare un'immagine del ’500? "Non sono in grado di leggere un episodio storico del passato con il linguaggio contemporaneo. Non posso filmare con la tecnica e con la scrittura cinematografica del 2000 un episodio del '500 o del '200. Devo sforzarmi di assumere lo sguardo dell'epoca. Che cosa ha fatto Visconti quando ha realizzato "Senso"? Ha cercato di interiorizzare lo sguardo dei Macchiaioli (per fare un esempio figurativo rivolto ai pittori dell'epoca): le sue inquadrature rimandano a quel tipo di sguardo. Il ritmo e la tensione narrativa sono quelle del melodramma, ovvero di un codice narrativo corretto, perché contemporaneo all'epoca rappresentata".
Dunque l’approcciarsi alla materia narrativa deve essere coerente da un punto di vista formale; la composizione, i tagli, le luci, i chiaroscuri e i colori che vanno a definire l’inquadratura devono avere un riferimento conforme allo sviluppo della storia.
Paolo Benvenuti arriva a "Gostanza da Libbiano" dopo dodici anni dal suo esordio al cinema ("Il bacio di Giuda" del 1988, a cui seguono "Confortorio" del 1992 e "Tiburzi" del 1996). Il soggetto del film parte dal ritrovamento, presso l’archivio storico del Comune di S. Miniato, dei verbali del processo a Monna Gostanza da Libbiano (che in realtà non era nata a Libbiano né vi risiedeva al momento dell'arresto, ma lì aveva iniziato a far la levatrice e la guaritrice) e dalla successiva pubblicazione di "Gostanza, la strega di San Miniato" di Franco Cardini che raccoglie i documenti e gli atti processuali del 1594. Il cinema di Benvenuti è sempre una ricerca sul rapporto tra cinema e indagine storica.
La sceneggiatura è ricavata dai verbali, asciugando, tagliando, riducendo. Passando dalle 200 pagine di verbali alle 40 di sceneggiatura l'intenzione, dichiarata, è quella di "tradire il meno possibile il manoscritto originale, stilato da un famoso notaio dell'epoca, Vincenzo Viviani, e di trasformarlo in un testo vitale e drammaturgicamente efficace" come dice il regista stesso. In effetti non c'è tradimento o manipolazione, ma lavoro di lima e forti taglia e cuci. L'idea è quella di non perdere le parole, infatti le frasi pronunciate e la struttura del processo sono invariate. Ma nel lavoro di sintesi il tutto ha un risultato drammaturgico ficcante.
Di nuovo, il pensiero di Benvenuti, di Valentino Davanzati e Basilio Franchina (i co-sceneggiatori del film), parte da una riflessione teorica ma si riflette nella pratica arrivando a una soluzione cinematografica. Semplificando: il testo originale va conservato, abbreviato e non tradito. I tempi e le scene del film determinano la struttura, e lo sfoltire del materiale fa emergere una forte tensione narrativa. Tanto che il film, pur nei suoi tempi non propriamente serrati, ha un ritmo sorprendente.
Un dettaglio per capire la lavorazione: i testi integrali degli interrogatori sono arrivati a noi grazie alle trascrizioni del notaio Viviani che nel film diventa un personaggio interno alla storia, sempre accanto ai giudici, intento a scrivere e preservare la memoria. Ma la sua funzione, a livello drammaturgico, è esplicitata nelle pagine bianche che vengono scritte diventando didascalie (come fosse cinema muto) e dalla sua voce fuoricampo che puntella i dialoghi quando c'è la necessità di inserti cronachistici.
Il film si apre e si chiude con un'inquadratura identica e speculare: due figure femminili in movimento da sinistra a destra in apertura e viceversa in chiusura e in mezzo (perfettamente centrata) una torre, la Rocca di Federico II. L'uso in controluce della struttura eretta è qui non solo utile per l'identificazione del luogo in cui si svolgerà l’azione del film. Ma soprattutto per mettere in evidenza il tema fin dal principio: simbolo fallico per eccellenza, la torre rappresenta il potere, il maschile. E il film porta avanti il discorso e lo sviscera usando la storia di Monna Gostanza, oppressa.
Inoltre, la seconda scena mostra una bambinetta (poi si scoprirà essere nipote della protagonista) giocare presso un pozzo (una cisterna che può essere interpretata come simbolo del femminile), facendo dei salti e cantando una filastrocca spensierata ("lucciola lucciola vien da me…") inquadrata dall'alto, con un taglio che sottolinea la subalternità. L'inquadratura si svela come una semisoggettiva di Padre Tommaso Roffia, vicario del vescovo di Lucca, l'inquisitore del film. Non è raro nel cinema che negli incipit venga esplicitato in maniera così evidente il tema del film. E poi di seguito ha inizio il dialogo con Donna Gostanza/Lucia Poli. Non uso impropriamente il parallelo personaggio/attrice perché, tra le altre cose, è uno degli aspetti più interessanti del film. Ci troviamo di fronte infatti a un'interpretazione notevolissima, di rara efficacia, dove l'attrice quasi sublima nell'interpretazione. La sua forza sta nel linguaggio arcaico ma che scena dopo scena si fa sempre più potente, antinaturalistico. Come se l'orizzonte interpretativo stesse al di là del ricreare una realtà. Il lavoro attoriale qui è creazione e non imitazione.
"Dopo un avvio difficile, Lucia ha capito e sentito che poteva abbandonarsi completamente a me, che poteva rinunciare a tutto ciò che sta al di fuori, il trucco, la verve dei suoi capelli biondi, per mostrare la sua anima", dice Benvenuti, e infatti da principio oltre alla voce, è il corpo della Gostanza/Poli ad essere protagonista, martoriato e appeso violentemente. Tutto diventa da subito ribaltato nel senso: curatrice, strega, colpevole, santona. Pronta a contraddirsi e a raccontare quello che i preti vogliono sentirsi dire.
Il film è un'indagine, e ha quindi un ritmo incalzante. La ricerca della "verità" passa attraverso la violenza e la privazione della dignità. Il potere si esprime in tutto, la sua cieca brutalità si insinua tra il mellifluo e l'iroso ma Monna Gostanza, vecchia e povera, tiene testa ai suoi aguzzini. Il Reverendo Roffia e Padre Porcacchi avanzano, la fanno vacillare, e lei sembra vittima, ma sembra anche prendersi gioco di loro, fa resistenza e si ribella all'ordine costituito. Diventa potente attraverso la parola e il racconto. Nella contraddizione di essere strega e di esser solo levatrice e guaritrice può trovare lo spiraglio di salvezza.
La Poli restituisce l'anima di Gostanza e Benvenuti è concentrato su di lei ed è evidente la fascinazione che ha avuto il personaggio sul regista. È un personaggio incredibile che "è riuscita ad affascinare anche me cinquecento anni dopo, coraggiosa, determinata. Violentata da bambina, rapita da un pastore, era figlia di un nobile di cui conservava l'alterigia e la consapevolezza di essere diversa dalle altre. Aveva organizzato un'azienda di vedove, all'epoca donne senza più identità, dove si preparavano erbe medicamentose, piuttosto redditizia visto che furono requisiti centinaia di fiorini d'oro. Quello che confessa secondo me fa parte di una strategia perché sono cose talmente assurde che lei certo sperava di non essere creduta. Invece le contestazioni sono di tipo teologico. Nei suoi racconti inventa e sogna. In qualche modo è un film sul diritto a sognare. Io faccio cinema per capire, incontro delle storie, mi affascinano. Mi piacerebbe capire attraverso il film non solo la storia di Costanza, ma il femminile".
Come si diceva all'inizio a proposito di Visconti e i Macchiaioli, va detto che qui la forza delle immagini rimandano alla pittura, anzi come meglio dice Benvenuti: "Per 'Gostanza da Libbiano' infine, che è ambientato nel territorio del Granducato di Toscana alla fine del Cinquecento, ho adottato il punto di vista del Bronzino, che era allora il ritrattista accreditato presso la corte granducale. Dato che il film si svolge non a Firenze ma a San Miniato, cioè non tra potenti ma tra gente di condizione più modesta, ho apportato significative modifiche ai modelli prescelti. L'abito di una gran dama ritratta dal Bronzino, indossato da Gostanza diventa l’abito di una donna di provincia, che cucendo il vestito con le sue mani cerca di adeguarsi ai canoni estetici vigenti. […]
Per Gostanza da Libbiano il discorso si sposta sul manierismo e soprattutto su Angelo Bronzino. Tutto questo, non per dire che faccio dei film in cui cerco di riprodurre i quadri (l'ho fatto, magari, in 'Confortorio'), bensì il contrario, cioè parto dalla pittura per arrivare al cinema".
Attraverso l'arte figurativa cerca la purezza dell'inquadratura, la purezza dello sguardo cinematografico. Non ricalcando schemi precostituiti, con la riproduzione pedissequa di composizioni o volumi, ma dando un senso al punto di vista. Benvenuti esprime i valori formali del quadro in movimento con il linguaggio proprio del cinema: spazio e tempo. Non realizza dei tableaux vivants per intenderci, non l’effetto citazionista. Ma puro cinema.
L’obiettivo è arrivare al cinema partendo dalla pittura e non fare il percorso inverso (come fa, secondo Benvenuti, Derek Jarman nel suo "Caravaggio").
Il punto di vista da ultimo quindi. L'inquadratura scelta per costruire il racconto. È illuminante la spiegazione che dà Benvenuti, filtrando la lezione di Rossellini, di quale sia il miglior punto di vista, la miglior inquadratura per mostrare il soggetto. Un soggetto, dice Benvenuti, può essere ripreso da infiniti punti di vista, ma ce n’è solo uno giusto ed è quello che dà un maggior numero di informazioni allo spettatore.
"Il punto di vista non è l’occhio del regista, è invece dato dal soggetto, è lui che ti dice mi devi riprendere da lì se vuoi comunicare il massimo delle mie potenzialità espressive […] Ma quel punto di vista è anche il più bello, la bellezza è il dono che la realtà ti dà quando hai capito da che parte la devi guardare. E si ricongiunge con tutta la storia dell’arte".
Per questo per Paolo Benvenuti è l’umiltà la chiave per fare il cinema perché "il regista è un operaio al servizio del soggetto e contemporaneamente al servizio del pubblico".
cast:
Valentino Davanzati, Renzo Cerrato, Paolo Spaziani, Lucia Poli
regia:
Paolo Benvenuti
durata:
93'
produzione:
Giovanni Carratori
sceneggiatura:
Paolo Benvenuti, Stefano Bacci, Mario Cereghino
fotografia:
Aldo Di Marcantonio
scenografie:
Paolo Barbi
montaggio:
César Meneghetti
costumi:
Marta Scarlatti