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Vivere al di fuori di ogni categorizzazione e con coraggio oltremisura, è Derek Jarman, la cui malattia innominabile diventa da parabola lenta e inesorabile a sodalizio artistico e musa

Nonostante la sua parabola infelice, la biografia di Derek Jarman è tutt'altro che povera e uniforme. Giardiniere, pittore, video-maker; un artista che ha pizzicato le corde creative e ne ha fatto una melodia, una sintesi totale - già Wagner, attraverso una parola impossibile, gesamtkunstwerke, reclamava l'avvento di una fusione tra le arti - e l'ha posta a vessillo dell'attivismo politico.

derekjarman_04Nato il 31 gennaio del 1942 a Northwood, Middlesex, e figlio di un ufficiale, trascorre l'infanzia senza mettere radici e tra idiosincrasie filiali. Studia alla Slade School of Art di Londra ed esordisce come pittore nella seconda metà degli anni 60, la sua mostra allestita al Lisson Gallery avrà un discreto successo e di fondamentale ispirazione sarà l'adesione all'universo artistico di Andrew Logan. Siamo agli sgoccioli dei Sixties quando, per la prima volta con una super8 tra le mani, colliderà con il mondo proto-cinematografico. Un momento spartiacque che somatizza il passaggio dalla figurazione alle suggestioni pittorico-visuali che gli 8 mm potevano regalare a un (futuro) cineasta avanguardista. Il nuovo supporto si presta e invoglia la sperimentazione visiva con il risultato di un ibrido altamente poetico e antinarrativo, che plastifica al meglio gli intenti di Jarman. Ed è così che inizia a realizzare una serie di corti e mediometraggi, a partire da riprese nel suo studio situato intorno a un quartiere industriale ("Studio Bankside", 1971) fino alla più bucolica campagna inglese, e che vedono come protagonisti amici e artisti. La peculiarità di questi lavori è la post-produzione, una vera e propria riedizione da home-movie a performance evocative: Jarman aggiunge filtri colorati, rallenta le immagini, le sovrappone e le stratifica, come se stesse dipingendo un quadro in fotogrammi, e attraverso le dissolvenze destruttura fino all'astrattismo convenendo a una programmatica unità pittorico-cinematografica. Parallelamente, il suo primo contatto con l'industria della settima arte avviene quando, notato il suo talento, Ken Russell lo chiama a curare la scenografia di "The Devils" ("I diavoli", 1971) e "Savage Messiah" ("Messia selvaggio", 1972).
Oltre a occuparsi di cinema, inaugurando nel 1976 la sua filmografia che da lì in avanti seguirà il suo percorso umano, fino ad annunciare pubblicamente la sua sieropositività, firmerà alcuni videoclip (Smiths, Pet Shop Boys, Sex Pistols, Marianne Faithfull, Throbbing Gristle, Orange Juice). Figliol prodigo della coincidenza tra vita e arte, sarà espressione fedele della scrosciante ribellione anni 70-80 e apologeta dell'impellente fenomeno queer.

Sebastiane, dell'orgoglio gay ante litteram


Nel 1976 Jarman realizza - insieme a Paul Humfress - il suo primo lungometraggio, ed è subito scandalo. Non solo espone al pubblico ludibrio la "illegalità" della sua sensibilità gay e la rivendica come valore positivo - era la prima volta al cinema - sovrappiù utilizza il martirio di San Sebastiano in una rilettura "provocatoriamente" gay-oriented ed esautorata completamente in latino, sebbene accentato di inglese. Sebastiano, così come i successivi Caravaggio e Edoardo II, sono i personaggi che allegorizzano l'omosessualità durante l'esperienza filmica del regista, qui appena cominciata. L'interpretazione apocrifa su cui si basa quest'opera non è però un'invenzione di Jarman, era stata già avallata - complice la storica raffigurazione di Sebastiano come un giovanotto efebico dal petto glabro - da Gabriele D'Annunzio  nel 1911 con il "Martyre de Saint Sébastien", allora affidato alle movenze di una ballerina dalla fisicità androgina. Non da meno era Oscar Wilde, che durante il suo esilio a Parigi usò lo pseudonimo di "Sebastian Melmoth" e - senza mezzi termini - specificava riferirsi a "the famously penetrated Saint Sebastian".
Al religioso si sostituisce, quindi, un più profano dramma di gelosia, in cui l'imperatore Diocleziano punisce l'amante, Sebastiano, anziché perseguire, come da vulgata, la sua conversione al cristianesimo. A dispetto di quanto la scena iniziale, con l'orgiastica  e trimalcionica festa dedicata al dio Sole, possa dar adito di pensare, la rappresentazione dell'omoerotismo è scevra da esaltazioni esibizionistiche, ma tragica e problematica come è l'amore; nella sua accezione più naturale, istintuale e libera da censure autoassolventi.
L'epica che negli anni si è diffusa intorno alla figura di Derek Jarman lo descrive come un "provocatore", sarebbe però fuorviante pensare che la reiterata nudità dei personaggi adagiati su uno scarno lembo di Sardegna, l'implosione delle pulsioni in un circolo di vizio sadomaso, la passività della sessualità repressa, la messa in scena impudica del regno incontrastato del desiderio - cui Brian Eno offre i suoi servigi in musica - siano strumentali a un disegno finalizzato a turbare le masse e non all'espressione dell'intimo confrontarsi di Jarman con la sua naturalità (in)corporea, attraverso un film, spontaneamente, nato come un gioco e postdatato a manifesto e icona.

Jubilee, radiografia della punk generation


jubilee_jarmanAccreditato come "il primo punk movie britannico", Jubilee (1978) ha tutte le carte in regola per stupire, di nuovo. A partire dalla sua realizzazione, nella forma ibrida di un "documentario fantastico", che conferma la necessità del regista di sperimentare e intersecare stili, generi e linguaggi.

È anche la prima volta che Jarman utilizza una sceneggiatura ambientata in epoca rinascimentale per mettere alla berlina la degenerazione moderna e implementare il nichilismo coevo.

È il 1578 e la regina Elisabetta I chiede al suo alchimista di conoscere il futuro, di essere trasportata nel 1978. All'epoca del giubileo di Elisabetta II, lo scenario è impietoso: un'Inghilterra violenta e barbaricamente preda dell'anarchia, una apocalisse spirituale e politica. La giustapposizione temporale ammanta di nostalgia la golden age, ma la denuncia, più che socio-politica è rivolta alla "interruzione di memoria" storica dell'Inghilterra - di notevole influenza per il regista sarà "L'arte della memoria" di Frances Yates - e al depauperamento consequenziale dell'animo esangue se depredato del ricordo.
Sebbene il film sia un crocevia di comparsate d'eccezione - Adam Ant, Siouxsie and the Banshees, Chelsea, Slits, mentre la colonna sonora è nuovamente firmata Brian Eno - la narrazione della agiografica vita dei punk è lontana dalle intenzioni dell'autore, cui preferisce il suo sguardo visionario in bilico tra affettuosa indulgenza - e non la passività di cui l'emblema punk, Vivienne Westwood, lo accusava - e critica paradigmatica quando prefigura la commercializzazione del fenomeno, esemplificata dal personaggio dell'impresario Borgia Ginz che trasforma Buckingham Palace in uno studio di registrazione e ha come motto, "they all sign up in the end". Una escalation di violenza fine a se stessa, le estreme conseguenze del no future, è quanto paventa Jarman in questa sorta di non-luogo distopico governato dalla disperazione e distrutto da una gang di ragazze arrabbiate, che la cinepresa, prolifica di zoom, segue riproducendone l'animosità. Una pellicola disturbante e kitsch, bella e terribile, incompresa e ostracizzata, resta uno spaccato oltremodo calato nel suo tempo, di un pezzo di storia inglese.

The Tempest:  Shakespeare tra estetica punk e barocchismi


Il terzo lungometraggio di Derek Jarman, nel 1979, è un adattamento libero e infedele dell'ultimo omonimo dramma shakespeariano sull'esilio di Prospero e la cospirazione ordita dal fratello Antonio. Lo script conserva coerentemente la struttura, i dialoghi - che preservano la cadenza poetica - e le vicende dell'originale, ma è sovraccaricato da un'estetica barocca che realizza una blasfema comunione tra la sensibilità punk dell'autore e il lirismo di un dramma di vendetta e redenzione. E tutto intorno è la desolazione fatiscente nei pressi della Stoneleigh Abbey, fotografata da Peter Middleton, cui fa da contraltare la scena del matrimonio opulento e sfarzoso, durante la quale si esibisce Elizabeth Welsh con "Stormy Weather". La cifra personale dell'autore si esprime nelle scelte estetiche eccentriche ed estreme, ma non solo, l'elemento erotico è sempre fortemente caratterizzato ed evidenziato, fondativo di un immaginario in cui la sensualità è archetipo imprescindibile. Se volgiamo lo sguardo a ciò che è stato fino ad ora, The Tempest è sicuramente il lavoro più "accessibile" del regista inglese - che avrà, però, ancora modo di dedicarsi all'integralismo sperimentale - e ne è, forse, testimonianza l'accoglienza ben più serena riservata a questo film.

Agli albori degli anni 80 la produzione artistica di Jarman è frenetica ed eterogenea, giacché il regista è impegnato su più fronti: realizza videoclip, si dedica ai mediometraggi - è del 1985 The Angelic Conversation in cui la voce off di Judi Dench declama 12 sonetti di William Shakespeare, di nuovo di ispirazione per il regista inglese, mentre le immagini inseguono due amanti alla ricerca l'uno dell'altro, in un'ascensione di romantica struggevolezza - lavora alla realizzazione del suo progetto finora più ambizioso, Caravaggio.

Caravaggio: un omosessuale, un artista e un assassino

caravaggio2_01L'idea del film fu suggerita al regista dal produttore Andrew Ward Jackson, che vide crescere nell'immaginario jarmaniano l'influenza della poetica di Pier Paolo Pasolini. Derek Jarman non solo accoglie la proposta, ma la pone al centro della sua vita creativa. Il personaggio di Caravaggio, in fondo, gli dava la possibilità - quasi un invito a nozze - di esplorare e compenetrare i confini tra cinema e pittura, senza dimenticare la problematica sensuale del triangolo amoroso tra il protagonista (Nigel Terry), Lena (Tilda Swinton) e Ranuccio (Sean Bean) su cui è incentrato il film e dove l'omosessualità è elemento caratterizzante per comprendere la figura del grande artista. Un budget scarno, 475.000 sterline elargite dal British Film Institute e da Channel 4, per un film che alla magniloquenza formale sostituisce l'umorismo camp, l'anacronismo delle "licenze poetiche" che l'autore si concede sul biopic tradizionale e la ricercatezza esemplare del dettaglio. Non il genio artistico al centro del racconto, bensì un Caravaggio morente a Porto Ercole che alla fine dei giorni ripercorre la sua vita per mezzo di flashback allucinatori: una realtà degradata, di laidi bassifondi e lussuria, prostitute e assassini; eppure deflagrante lirismo. Un biopic immaginifico, frutto di una lettura personale della vita di Michelangelo Merrisi, evocativa nei giochi di luce, tableaux vivants caravaggeschi, e profonda nella ricerca dell'affettività attraverso l'erotismo mercificato. La gestazione lunga, sei anni, e l'arrivo dell'opera nel 1986, l'anno della scoperta più terribile. L'Aids annunciato pubblicamente alla Berlinale come qualcosa da cui non voler scappare. Tilda Swinton, al suo primo ruolo in un film di Jarman, comincia qui, con un capolavoro di calda bellezza, un sodalizio imperituro.

Che cosa resta dell'Inghilterra


Con The Last Of England (1987), che prende il nome da un quadro del pre-raffaellita Ford Madox Brown che rappresentava nel 1855 l'emigrazione inglese verso l'Australia, Derek Jarman sferra il suo feroce anatema contro la politica contemporanea. Un'opera a metà strada tra il videoclip e il film, in cui la sceneggiatura cede il passo a un copioso lavoro di montaggio di super8 (è già accantonata la parentesi in 35mm); un idillio eterogeneo di suggestioni, dall'intromissione di immagini dedicate a Eisenstein - prese da "Imaging October" - all'amatorialità di filmati privati, di guerra e di amore. Un cinema arrabbiato che sublima la rassegnazione con l'arte, è la risposta del regista inglese agli anni del thatcherismo e alla dirompente diffusione del liberismo a scapito del welfare state e di una ipocrita moralità esibita più che incarnata. Una riflessione dolente e amara, che fa rifulgere più che altrove lo stile unico della primazia della forma visiva sul concetto, rendendo la sua filmografia indigesta se non coraggiosamente predisposti. Un j'accuse straniante ma lucido nel centrare il bersaglio della propria collera, la crisi dell'Inghilterra contemporanea e la fine di un'epoca dorata, tanto da fare del regista, all'acme della popolarità, il simbolo di una ribellione politica, e sovversivo per antonomasia. Espressione fattuale dell'artista assoluto, in grado di far convergere linguaggi e strutture differenti in un'esplosione energica e vitalistica al servizio di quella vita ingrata, circoscritta dal furore politico ed erotico dalle similitudini pasoliniane, che l'ha sottratto alle scene troppo presto.

Un canto contro tutte le guerre


warrequiemIl film più sfortunato di Jarman è senza dubbio War Requiem, pellicola del 1989, in cui l'avanguardia registica del cineasta britannico incontra una musica "colta": si tratta dell'omonima opera di Benjamin Britten, autore della composizione che nel 1961 fu utilizzata per inaugurare la riapertura della cattedrale di Coventry, brutalmente violentata dalle bombe durante la Guerra. La partitura di Britten era già di per sé non digeribile da tutti: accanto alla Missa pro Defunctis, un testo sacro latino, il compositore aveva utilizzato le parole delle poesie, scarne eppure di straziante emotività, del soldato-poeta Wilfred Owen, morto a pochi giorni dalla firma dell'armistizio del primo conflitto mondiale.
Jarman aggiunge alla già ambiziosa opera musicale degli anni 60 un accompagnamento visivo come al solito audace, grottesco, fatto di passione per la gestualità teatrale e pieno di allusioni all'universo pittorico a lui tanto caro. Con il sostegno musicale delle note di Britten, il protagonista Owen, interpretato da Nathaniel Parker, si muove fra violenza, elaborazione del dolore causato dalla guerra e gesti di irrefrenabile pietà. Dopo un lungo piano-sequenza iniziale affidato al volto segnato dal sangue e dalla morte di Laurence Olivier, qui alla sua ultima apparizione, il film si dipana sul rapporto fra quattro personaggi: Owen, appunto, l'infermiera (l'immancabile Tilda Swinton), un soldato sconosciuto e un militare nemico. E i quattro interagiscono in una storia di amicizia, solidarietà, ribellione alle bombe e alla violenza. Jarman, che rinuncia a una propria sceneggiatura, affida più che in qualsiasi altra opera alla potenza visiva della sua messa in scena spericolata il senso dell'opera: un manifesto pacifista di struggente sincerità, proprio perché basato esclusivamente su materiali rimasticati e universali; non solo l'opera di Britten, non solo le poesie del giovane soldato antimilitarista, ma anche filmati d'epoca sulla Seconda guerra mondiale e sul conflitto in Afghanistan.
Molti critici europei considerano la pellicola "respingente", per la congerie di elementi contrastanti che Jarman volle "buttar dentro". Ma se invece si accetta la genuinità dell'operazione, non si può non rimanere ammaliati da tanta sapienza e genialità.

Gli ultimi anni


Jarman trascorse i suoi ultimi anni di vita nella casetta diroccata vicino al mare di Dungeness, a due passi dalla centrale nucleare. Un luogo fuori dal tempo e dagli spazi umani, una specie di tana paradisiaca dove finire i propri giorni. Quella dimora grottescamente fiabesca era circondata da un inconfondibile giardino, fatto di ciottoli, sentieri e licheni. Quel giardino che simbolicamente è così rilevante per il regista da diventare l'assoluto protagonista di uno dei suoi lungometraggi più oscuri, The Garden, del 1990, il primo film a essere completato dopo la scoperta dell'Aids.
È una della opere più antinarrative di Jarman, fatto di spezzoni apparentemente sconnessi che si alternano. Scene di vita amorosa tormentata, ricordi della propria esistenza, frammenti di scene bibliche. E il giardino a fare da collante. C'è la storia dei due amanti gay, seviziati e perseguitati, c'è la memoria degli amici del cineasta già morti di Aids, c'è la trasfigurazione del giardino in quello dell'Eden, dove l'innocenza umana è stata irrimediabilmente perduta. E c'è soprattutto il giardino dei Getsemani, dove inizia la passione di Cristo, che diventa un sentiero parallelo alla sofferenza dei due appassionati innamorati. Eppure, un parallelismo fra Gesù e l'amore gay è tutto fuorché blasfemo: è, anzi, un disperato grido di aiuto, una tenera dichiarazione d'impotenza di fronte alla discriminazione della società.
Attraverso un montaggio insolitamente frenetico, Jarman sovrappone, alternando stili opposti fra loro, le storie sopra elencate. Il tutto contribuisce a creare, artificiosamente, quella linea narrativa che invece, ufficialmente, ha sempre rifiutato. Il senso è nella circolarità degli eventi: ogni era ha le sue discriminazioni e le sue persecuzioni. Tanto quanto il Cristo in croce, anche gli amanti omosessuali sono vittime sacrificali, innocenti da dileggiare come capri espiatori scelti da una comunità che espelle la diversità.
È una sorta di I-movie, un film su di sé, una rielaborazione personale del dolore e della ghettizzazione sessuale subita. Ma Jarman, come sempre, controlla il suo furore e lo convoglia in un flusso stupefacente di immagini, che annichiliscono per l'audacia degli accostamenti e commuovono per la sincerità che sprigionano.

Il re e il cortigiano


edwardii_jarmanOrmai consumato dalla malattia, Jarman annuncia di volersi concentrare su progetti più piccoli o, comunque, aiutato dalla produzione, su opere più mainstream. E di fronte a questo proclama sorprende non poco la visione del suo ennesimo straordinario lavoro, quell'Edoardo II che si staglia nel panorama inglese come una pietra miliare del cinema indipendente. Sì, perché nonostante le premesse, il film del 1991 è un'opera realmente off, lontana da qualsiasi possibile inclusione nel circuito di un cinema popolare. Partendo dall'opera omonima di Christopher Marlowe, Jarman stravolge la Storia e la rende manifesto delle sue convinzioni sociali e politiche, trasfigurando la tragedia del re che non volle rinunciare ad avere a corte il suo amante, in un pamphlet, poetico e straziante, sulla condizione degli omosessuali nel Regno Unito contemporaneo. Lo stile è sempre quello: la vicenda storica, sceneggiata come se si trattasse di un adattamento classico, sconvolta a livello visivo da scelte di messa in scena estetiche a dir poco dirompenti.
Superando in velocità i colleghi postmoderni, Jarman veste con stile moderno i suoi protagonisti, si diverte a disseminare nella scenografia indizi che riportino alla società dell'attualità, spinge sull'acceleratore del contrasto tra il soggetto originario e i riferimenti al mondo moderno. Il risultato è rivoluzionario: il dramma cortigiano si fa saggio politico, l'inetto sovrano, capitato sul trono più per dovere che per reale vocazione, diventa il simbolo e il paladino di una battaglia sui diritti civili che il regista di Northwood sente così vicina.
A differenza dei precedenti lavori, qui ci sono due elementi distintivi: da una parte il tono dello scontro, la violenza delle immagini assume connotati più decisi, meno estetizzanti, meno contemplativi. È come se sul finale della vita, l'uomo Jarman dettasse al Jarman regista una poetica più stringata con cui, pur non rinunciando al gusto avanguardistico per una messa in scena audace e antinarrativa, sia possibile portare più pubblico possibile a capire il senso del film, lo scopo politico che vi sta alla base.
D'altra parte, seppur virtuoso come ai suoi soliti vertici da un punto di vista visivo, lo stile registico si fa più compassato e "classicheggiante": l'obiettivo era proprio questo, infatti, Edoardo II viene presentato come una pellicola proveniente dall'industria con segni di riconoscimento più commestibili per il grande pubblico. Anche la confusione mediatica cui Jarman è da sempre affezionato trova una sua regolamentazione: così, un cameo canoro di Annie Lennox non risulta ipnotico ed enigmatico ai più, ma arriva come accompagnamento musicale di una delle più struggenti scene d'addio che il cinema ci abbia mai regalato.

Wittgenstein: le immagini spiegano la filosofia

w_jarmanQuando tutti sono pronti ormai a recitare il canto funebre di Jarman, il regista britannico spiazza tutti e si ripresenta all'opinione pubblica con un'opera che nulla ha a che vedere con i suoi lavori immediatamente precedenti. Wittgenstein, pur obbedendo alla sacra regola del rifiuto di qualsiasi canone prescritto di messa in scena, lascia da parte quell'atmosfera rabbiosa e decadente che aveva caratterizzato gli ultimi lavori e, con essa, accantona anche la tematica politica a lui tanto cara. Questo insolito biopic sul dissennato filosofo austriaco è invece un brioso esperimento di scrittura per il cinema di una teoria filosofica.
Sfruttando una scenografia di impianto teatrale, con tanto di sfondo nero che annulla gli spazi fisici, il film gioca tutto sulle parole. Proprio come la seconda parte dell'attività di Wittgenstein, la pellicola è una riflessione sul linguaggio e sulla percezione che di esso si ha. Attraverso la crescita, la maturazione e il raggiungimento del tormentato successo da parte del protagonista, Jarman dirige un lungo e divertente dibattito sulle idee stesse del pensatore viennese. Certo, grande importanza ha come sempre il gusto visivo per una sorpresa costante: da questo punto di vista, è impressionante, rivisto oggi, l'eccezionale gioco di contrasti fra luci e ombre, fra sfondi neri e colori dei costumi d'epoca sgargianti e quasi accecanti.
E anche se per stavolta il regista è attratto da un altro tipo di riflessione, sempre con grande riguardo viene affrontata la "questione omosessuale". Parte del tormento del filosofo è data dall'impossibilità di amare alla luce del sole il suo adorato assistente. Ma è singolare come, a pochi mesi dalla sua morte, Jarman decida di affrontare l'argomento con meno livore e meno furore rispetto al passato. La sua principale preoccupazione è la sperimentazione di una nuova opportunità data dalla macchina-cinema: quella, in altre parole, di mettere in scena, visivamente ma anche in chiave narrativa, una teoria filosofica, un ragionamento, un processo intellettuale. E lo fa cercando di "adattare" il contenuto dell'opera di Wittgenstein alle immagini registrate dalla cinepresa.
Il risultato è sorprendente per leggerezza e fruibilità: il film non è, infine, un coacervo di pulsioni intellettuali criptate per il grande pubblico. È bensì un godibile seminario "in presa diretta", una messa in scena dell'angoscia stessa di un uomo che tentava di rivoluzionare l'idea stessa di comunicazione con la paura che ciò venisse frainteso dagli studenti. Insomma, fra Wittgenstein e Jarman le differenze non erano poi così evidenti.

Un testamento monocromo

In Blue, un anno prima della morte, il percorso artistico e intellettuale si compie. Partito dalla volontà di ridefinire il linguaggio cinematografico e le regole di messa in scena visiva, rifiutando per lo più la schiavitù al concetto di narrazione, il cinema di Jarman è andato astraendosi sempre di più, film dopo film. Già in "Wittgenstein" c'era l'esperimento di raccontare non la vita del filosofo, ma il contenuto stesso della sua opera. Nella sua ultima fatica, l'astrazione raggiunge l'apice e, al tempo stesso, capovolge tutta una carriera. Via l'aspetto visivo, limitato a un unico fotogramma di colore blu, Jarman rivendica alla fine l'importanza della parola, la possibilità che la macchina da presa veicoli un potente messaggio senza bisogno di alcun accompagnamento per immagini.
L'opera è un altro colpo a sorpresa: dallo stesso autore di pellicole che rivoluzionavano l'idea stessa di scenografia e di uso del colore, arriva un film svuotato di tutto questo. In parallelo con un'incipiente cecità, diventata ormai totale per via del distacco della retina provocato dall'aggravarsi del virus, il regista rivendica ancora una volta quello spirito di libertà creativa che è stato la sua bandiera in tutti gli anni passati. È come se dicesse a se stesso: "Non puoi più vedere? Prova a dare un colore a tutto questo". Fu proprio Jarman a motivare la scelta della tonalità cromatica, parlando del blu come del colore che meglio di qualsiasi altro desse l'idea di un frammento di lavoro senza limiti, lo specchio perfetto di un paesaggio che ritraesse il concetto stesso di libertà.
Musicato da Simon Fisher Turner, il film si articola in quattro voci fuori campo che riflettono a voce alta sulle questioni che stavano più a cuore al cineasta britannico: dalla malattia alla discriminazione degli omosessuali, dalla paura di morire alla nostalgia per alcuni pezzi di vita ricordati. Come in una specie di testamento verbale, Jarman chiama a raccolta alcuni interpreti che lo hanno accompagnato: oltre a lui, "declamano" John Quentin, Tilda Swinton e Nigel Terry. Le loro voci si alternano alla musica e a rumori di sottofondo.
Per una volta il fruitore di cinema può essere chiamato "ascoltatore": è infatti l'udito il senso più stimolato dalla visione, anziché la vista. E, possiamo garantirlo, assistere a una proiezione del genere dà un senso ineguagliato di ipnosi e partecipazione. È come se Jarman si spegnesse in diretta, consegnasse a chi lo ha seguito fino a quest'ultima pellicola l'eredità spirituale di un lavoro inestimabile.
Nessuno primo di lui era riuscito a coniugare in questo modo la ribellione agli stereotipi prescritti dal mondo del cinema e un costante e mai scontato impegno civile. E tutto questo con una passione indomita, frenata soltanto da un corpo che, infine, non riuscì più a seguire i voli frenetici di un'anima libera.





Derek Jarman