L’incipit è lo stesso: Gloria, seduta davanti al bancone di un bar, aspetta isolata qualcuno (o qualcosa) in grado di dare un nuovo senso alla sua vita. Un incontro. I cinquant’anni sono già stati compiuti da tempo, il matrimonio è ormai alle spalle, eppure a Gloria manca ancora qualcosa per dirsi veramente felice. Il giorno lavora, la notte balla da sola, ma la sua sembra essere semplicemente un’attesa senza fine. Era una storia a suo modo drammatica, quella raccontata da Sebastián Lelio in “Gloria” nel 2013; e per questo occupata da corpi invecchiati, decadenti, talvolta sgradevoli. Forse l’errore fondamentale compiuto da Lelio nella realizzazione del remake statunitense di quell’opera è aver cercato di riproporre la stessa formula vincente – e quindi sostanzialmente copia/incollando la sceneggiatura precedente, variando pochissimo anche le linee di dialogo – in un contesto che, con quella stessa vicenda, poco ha a che spartire.
“Gloria Bell”, diciamolo subito, è un film di Julienne Moore, e non solo con Julienne Moore. E questo non tanto perché voluto e prodotto dall’attrice, ma perché perfettamente coerente con la politica divistica hollywoodiana. La star come autore. Il cambiamento maggiore tra la Gloria del 2013 e la Gloria del 2019, banale osservazione, è l’interprete: non è la scrittura del personaggio a distanziare le due protagoniste, quanto il modo con cui le due attrici lo mettono in scena. Paulina Garcia trasmetteva la disperazione di Gloria nella trasandatezza e nell’infelicità; Julienne Moore costruisce invece una donna forte, bella, solare, con l’abito sempre perfetto, il trucco incantevole e nemmeno un capello fuori posto (persino nelle scene erotiche). La Garcia respingeva lo spettatore e subiva le azioni degli altri personaggi; la Moore al contrario attrae e reagisce. Eppure, come dicevamo, la sceneggiatura è sempre la stessa. E infatti eccoci arrivati al punto: la mancata coerenza tra la scrittura del personaggio di Gloria Bell e la sua messinscena. Come credere che Julienne Moore possa trovarsi così profondamente immersa nella solitudine, quando così attenta alla sua presenza e al suo aspetto? Come credere nella sua tristezza quando neppure per un minuto possiamo sentire la sua disperazione? E ancora: come credere che una donna così raffinata possa abbandonarsi a una storia di una notte e via con un uomo evidentemente meno attraente? Il problema di Gloria Bell non è il suo essere diversa da Gloria, ma il suo essere diversa dalla idea alla base del personaggio. Ma lo stesso discorso si potrebbe ripetere per John Turturro (davvero fuori parte), dal momento che in “Gloria Bell” noi vediamo gli attori e mai i loro personaggi.
Lelio cambia il meno possibile rispetto all’originale, limitandosi semplicemente a quelle scene impossibili da riprodurre in territorio americano. La storiella del gatto, ad esempio, viene narrata non più dalla domestica ma dall’estetista di Gloria (scelta bizzarra, divertente ma un poco ridicola); il dialogo politico durante il pranzo a quattro ora contiene una discussione circa l’utilizzo delle armi negli Stati Uniti (e poteva esserci scelta di adattamento più banale?). L’interesse maggiore è dato allora dalla differente macchina produttiva e, di conseguenza, da un’estetica che risponda più al prodotto indipendente a stelle e strisce che non alla forma-festival tipica di molto cinema europeo e sudamericano. Anche per questo “Gloria Bell” è assai più vicino alla commedia di quanto lo fosse l’originale di sei anni fa, con toni e ambienti meno cupi e un utilizzo più marcato della colonna sonora. Il problema però è sempre quello già citato: come può la storia di Gloria risultare coerente in questa sua declinazione? È il limite fondamentale di molti remake e purtroppo Lelio non riesce a giustificare la riproposizione di quella vicenda. A “Gloria Bell” manca un vero cuore, un’idea attorno a cui imbastire una narrazione convincente, dato che il centro del discorso – il racconto delle vicissitudini di una donna di mezz’età – si perde nell’adattamento alle logiche produttive statunitensi.
Lelio conferma la maturazione raggiunta in cabina di regia dopo il premio Oscar per “Una donna fantastica”, ma finisce per perdersi in un’opera che sembra confezionata più per la gloria della sua attrice – qui alle prese con un personaggio di una perfezione quasi irritante, addirittura ringraziato dalle colleghe di lavoro per il supporto emotivo offerto – che per reale esigenza artistica. E così “Gloria Bell” finisce per apparire freddo, poco emozionante, almeno fino a un finale dove Lelio addirittura riesce a superare il proprio lavoro originale (ma con “Total Eclipse of the Heart” non è difficile). Peccato arrivi forse un po’ troppo tardi, né riesca a legittimare la natura di questo remake.
cast:
Julianne Moore, John Turturro, Michael Cera, Alanna Ubach, Sean Astin, Jeanne Tripplehorn, Holland Taylor, Brad Garrett
regia:
Sebastián Lelio
distribuzione:
Cinema Srl
durata:
102'
produzione:
Fabula, FilmNation Entertainment
sceneggiatura:
Alice Johnson Boher, Sebastián Lelio
fotografia:
Natasha Braier
montaggio:
Soledad Salfate
musiche:
Matthew Herbert