Fellini che non riguardava i suoi film. Fellini il bugiardo. Fellini col megafono. Fellini che ha coniato il più grande imbroglio etimologico nella storia del cinema italiano, facendo credere a tutti che amarcord significasse "io mi ricordo", quando invece voleva dire "io invento".
Di Federico Fellini ormai è stato detto tutto, sia nella forma dei saggi scritti che di quelli filmati. Ma il centenario della nascita, celebratosi l’anno scorso, un mese prima che il mondo piombasse nell’incubo pandemico (après moi, le déluge), ha dato ulteriore impulso al già inflazionato fenomeno del documentario sul Maestro riminese, con "Fellini fine mai", "Fellini degli spiriti", "La verità su La dolce vita" (invero incentrato principalmente sul produttore del film Giuseppe Amato) e infine con questo "Fellinopolis", l’ultimo a giungere nelle sale dopo il passaggio, lo scorso ottobre, alla Festa del Cinema di Roma.
Quattro film che si sono andati ad aggiungere alla nutrita schiera di documentari, docu-fiction e biopic degli scorsi decenni (dai più recenti "Che strano chiamarsi Federico", dell’amico e collega Ettore Scola, e "Federico Fellini: sono un gran bugiardo", fino ai più risalenti "Diario segreto di Amarcord" e "Ciao, Federico!", per citarne alcuni). Senza dimenticare i documentari o pseudo-documentari girati dallo stesso Fellini, vere e proprie autobiografie su cellulosa, talvolta nella forma di frammenti documentaristici inseriti in opere di più ampio respiro narrativo e artistico ("I clowns", "Block-notes di un regista", "Intervista", "Roma").
Se "Fellini degli spiriti" aveva provato ad analizzare un aspetto specifico – quello del Fellini mistico, medianico, spiritico più che spirituale, attratto dall’occulto e dal paranormale – andando a focalizzarsi su un ambito che non era mai stato trattato a livello monografico (almeno in Italia e almeno al cinema), il documentario di Silvia Giulietti è invece decisamente più tradizionale, in linea con quanto già si era visto in passato, e dunque con l’analisi dell’opera, dello stile e della poetica del Maestro riminese, oltre che del suo rapporto con i collaboratori. Qualcosa che era già stato proposto, ad esempio, nel citato "Diario segreto di Amarcord", girato da due storici collaboratori del regista come Maurizio Mein e Liliana Betti. Anche in quell’occasione, infatti, il discorso ancorato a uno specifico lungometraggio ("Amarcord") era in realtà estendibile all’intero corpus filmico felliniano (almeno quello girato sino ad allora). E per molti versi non è diverso l’approccio scelto da Silvia Giulietti, che racconta Fellini per il tramite di tre sue opere degli anni Ottanta ("La città delle donne", "E la nave va", "Ginger e Fred"), sicuramente minori e in alcuni casi sottovalutate (in particolare la seconda).
La spina dorsale di questa operazione è rappresentata dai making of girati sul set di quei tre film da Ferruccio Castronuovo, l’unico a cui Fellini consentì in quegli anni di documentare la produzione delle sue opere (come del resto aveva fatto con Gideon Bachmann nel 1969 durante le riprese di "Fellini Satyricon", in quello che diventerà "Ciao, Federico!"). E il fatto di aver raccontato il Fellini di opere minori può essere un pregio, ma può costituire anche e contemporaneamente un limite rispetto a quegli altri documentari che avevano ripreso il Maestro in alcuni dei momenti di maggiore ispirazione della sua carriera.
Ai "dietro le quinte" di Castronuovo (i cosiddetti special), Silvia Giulietti aggiunge le interviste ad alcuni collaboratori storici del regista (come Lina Wertmüller, assistente alla regia di "La dolce vita" e "8 1/2") e in particolare ai collaboratori di quegli anni (Dante Ferretti, Nicola Piovani, il costumista Maurizio Millenotti, la segretaria di edizione Norma Giacchero, oltre allo stesso Castronuovo) che ripercorrono, spesso con grande trasporto emotivo, memorie e ricordi personali. E aggiunge altresì le immancabili riprese della Cinecittà di oggi e dello Studio 5, fotografati con un grandangolo estremo quasi a voler restituire visivamente la trasformazione e la trasfigurazione di un luogo e di un mondo che non esistono più, se non nei cimeli e nei ricordi.
In "Fellinopolis" non mancano alcune buone suggestioni, ma del resto quando si spende il nome di Fellini basta davvero poco a suscitarle. E sicuramente non va sottovalutato il lavoro di riorganizzazione dei filmati di Castronuovo, pur se solo in parte inediti. Viene però difficile, appunto, dire qualcosa di originale, anche per una regista non alle prime armi come la Giulietti, che aveva già diretto documentari incentrati sul mondo del cinema.
In "Gli angeli nascosti di Luchino Visconti" aveva intervistato i collaboratori del Conte Rosso, operazione sostanzialmente replicata in questa occasione nei confronti di Fellini. E sia allora, sia in questo caso, le interviste sembrano (e sembravano) concentrarsi – per certi versi, inevitabilmente – su ciò che il regista aveva rappresentato per gli intervistati, più che su un’analisi di quello che l’artista è stato per il mondo della settima arte (e anche in questo caso può essere un limite, ma anche una scelta precisa).
Forse proprio perché è difficile, oggi, dire qualcosa di nuovo e originale su personaggi di quel calibro, la cui opera è stata sviscerata in ogni sfumatura dai critici e dagli storici del cinema. E così, quando Piovani ricorda, in un paio di occasioni (tra cui quella che sembra una stoccata a Sorrentino), come Fellini non amasse ripetersi, neanche nelle piccole cose, e fosse alla continua ricerca di qualcosa di nuovo, viene da pensare come probabilmente il regista riminese non avrebbe amato, così come non amava i giornalisti che gli ponevano sempre le stesse domande, questa ripetitività nei suoi confronti.
regia:
Silvia Giulietti
distribuzione:
Officine UBU
durata:
79'
produzione:
iFrame srl
sceneggiatura:
Silvia Giulietti
fotografia:
Paolo Oreto e Jessica Giaconi
montaggio:
Silvia Giulietti e Antonello Basso
musiche:
Rocco De Rosa