Non sono un pessimista: vedere anche il male è, a mio parere, una forma di ottimismo.
Roberto Rossellini
Cinema Novo, Nuovo cinema tedesco, Nouvelle Vague, Free Cinema. Sono solo alcuni dei movimenti artistici che hanno tratto grande ispirazione dalle istanze neorealiste che si affermarono in Italia fra la metà degli anni 40 e la metà degli anni 50. Ogni scuola prese poi la sua strada, ma, a vario titolo, l'esigenza di filmare la verità divenne un'urgenza che cineasti di ogni parte del mondo assorbirono dai capolavori di Visconti, De Sica, Rossellini, De Santis, Lattuada. C'è un'interessante differenza fra l'esperienza di questi registi italiani e i rappresentanti delle altre cinematografie poco sopra citate. Un autore della Nouvelle Vague rimane tale per tutta la sua vita artistica, certo, mutando l'approccio, le tecniche e l'oggetto del narrato, ma mantenendo fermi alcuni capisaldi del proprio credo cinematografico. I padri del Neorealismo, invece, hanno poi abbandonato la strada intrapresa in quel determinato periodo storico e hanno fatto completamente altro. Non un rinnegamento delle origini, ma l'esaurimento di un'impellenza espressiva. Un richiamo della foresta necessario e inevitabile, da trasformare in opere che dovevano avere anche una certa fretta nell'essere mostrate al mondo. Roberto Rossellini, al pari dei suoi colleghi, ha sostanzialmente seguito lo stesso percorso. Forse, a differenza di Luchino Visconti e Vittorio De Sica, il suo rapporto con la Settima arte è stato se possibile ancora più tormentato, costellato da infatuazioni e delusioni, cambi di prospettiva inattesi ed esagerazioni creative votate a una voglia di grandezza smisurata.
Qui in particolare ci interessa il primo di questi passi avanti. Dopo "Germania anno zero" e quel modo di riprendere la realtà desolante e devastato, il cineasta romano cominciò a riflettere sulle conseguenze che la Seconda guerra mondiale avrebbe provocato nell'indole profonda degli esseri umani; fu allora, infatti, che il concetto di solitudine si incuneò nel suo cinema, fino a diventare il pilastro dei lungometraggi successivi. Se in "Stromboli (Terra di Dio)" il vuoto della protagonista Karin era tutto personale, intimo, quasi fisico nel suo esplicarsi in una vita impossibile da affrontare, in "Europa '51" la solitudine diventa il cardine di una lotta costante fra l'individuo e il mondo circostante. Il nuovo Rossellini postneorealista è un novello esistenzialista, un regista che getta le basi, senza saperlo, per decenni di capolavori che seguiranno. Il tormento interiore della protagonista Irene, infatti, è il pilastro di un nuovo modo di raccontare la quotidianità delle persone, un anticipo di quanto vedremo nel cinema di Michelangelo Antonioni o Robert Bresson. Con una differenza fondamentale, però: nell'arte di questi maestri lo scopo ultimo è l'astrazione, una visione ascetica della parabola cinematografica. In Rossellini no, in "Europa '51" il corpo, la sofferenza nel fisico, lo sporco del mondo e delle città sono elementi imprescindibili per una descrizione del sentimento di solitudine. In questo, come anche nelle fasi successive della sua incredibile carriera, Rossellini non rinuncia all'imperfezione nella scrittura e nel dettaglio, il suo è un cinema che procede per sensazioni, impulsi e ideologie sfrondate da arzigogoli intellettuali. "Europa '51" in questo risulta un film indefinibile, in equilibrio precario fra svariate dicotomie, verità e finzione, rigore e semplicità, congettura e analisi.
Rossellini + Bergman
È poi un'opera inscindibile dalla sua protagonista, la musa ispiratrice Ingrid Bergman, qui alla seconda collaborazione con Rossellini. Reduce dall'esperienza travolgente di "Giovanna d'Arco", diretto da Victor Fleming, Bergman giunge a questo progetto con una maturità ideale. Da una parte ha con sè un bagaglio tecnico adatto a interpretare il ruolo di una donna dilaniata dal dolore, decisa ad attraversarlo anche in un senso più strettamente materico; dall'altra parte, inoltre, ella ha una forza espressiva tale per cui soltanto lei, probabilmente, avrebbe potuto sostenere quella macchina da presa che il Maestro le incolla sul volto per tutta la seconda parte dell'opera, incorniciandone i lineamenti attraverso un sapiente e delicato lavoro di luci e ombre fino a mostrarla nella sua completa metamorfosi cristologica. "Europa '51", lungometraggio dall'ambizione incontrollata fin dal titolo, che esprime una volontà di mettere in scena un racconto universale, trasversale, valido per tutto il Vecchio Continente uscito a pezzi dal conflitto mondiale, narra di una famiglia dell'alta borghesia, di stanza a Roma perché lui fa il diplomatico, impegnata nei rituali vacui di una vita fatta di ricevimenti, eventi, mondanità varia. Fino a che il figlioletto della coppia, Michel, si lancia dalla tromba delle scale tentando il suicidio, perché si sente solo e trascurato dai genitori. Lo shock è tale per Irene che la sua vita cambia radicalmente. Prima è spinta a questo mutamento da un cugino infatuato di lei (di simpatie comuniste), poi anche da sola si avventura sempre più nella realtà del sottoproletariato delle periferie. Inizialmente mossa da un desiderio di redenzione, la sua metamorfosi la porterà a spogliarsi di ogni orpello superfluo e darsi ai poveri con uno spirito francescano di amore incondizionato, scevro da qualsiasi idea politica e sociale, mossa solo da un sentimento di totale dedizione amorosa. A quel punto il finale sarà drammatico: la famiglia, sempre più imbarazzata, sarà costretta a farla internare in una clinica psichiatrica e così Irene, finalmente liberata nell'animo, troverà una definitiva prigionia nel corpo. Rossellini aveva perso un figlio pochi anni prima e, nel presentare a Venezia "Europa '51", sostenne che gli interessava mostrare le due possibili vie d'uscita da un dolore di tale portata; da una parte la possibilità dell'impegno civile, ciò che il cugino Andrea tenta infatti di suggerire alla protagonista, argomentando sul fatto che la morte del piccolo Michel è in realtà colpa di un'assenza di coscienza di classe matura; e dall'altra parte il rifugio in un approdo metafisico, secondo cui l'altruismo e l'amore non sono più elementi di questo mondo, ma fattori che trascendono la vita collettiva, una sorta di condizione permanente dello spirito che, in questo modo, perde qualsiasi interesse per le vicende terrene.
La lavorazione del film fu alquanto sofferta. Per sedici mesi la sceneggiatura passò di mano in mano, da Federico Fellini e Tullio Pinelli allo scrittore comunista Jean-Paul Dreyfus alias "Le Chanois" fino a giungere sulla scrivania dello stesso Rossellini, il quale aveva già in mente di affidare il ruolo principale all'amata Ingrid. Si è molto discusso sul paragone, citato in diverse occasioni dallo stesso Maestro, tra Irene e la figura di Simone Weil, filosofa e mistica francese che dopo una vasta produzione saggistica lasciò le lettere per sperimentare la condizione operaia e affrontare la Resistenza francese in assoluta povertà. Ma il raffronto regge solo parzialmente, perché altrimenti dovremmo trovarci a discutere di un'altra opera rosselliniana appartenente al periodo neorealista. In "Europa '51", invece, la scelta politica viene presa e poi superata, Irene si spinge ben oltre l'esperienza di Weil, la sua azione a favore dei diseredati diventa non già una missione civica, ma una condizione esistenziale, sbocco naturale di un percorso di ascesi costante. Il Rossellini osservatore politico lascia presto spazio all'autore interessato alle svolte trascendentali della sua eroina: Irene non intende mondare le impurità della quotidianità, né tantomeno divenire una sorta di agente purificatore delle classi sociali più basse. La sua è una missione volta soprattutto all'accettazione e qui, infatti, si verifica la rottura con il cugino Andrea, convinto, come perfetto rappresentante del ceto intellettuale socialista, che i poveri vadano "educati" a una coscienza collettiva, primo passo verso la battaglia per l'emancipazione. A Irene tutto questo non interessa; una delle scene più significative, a tal proposito, è quella del dialogo fra lei e il personaggio interpretato da Giulietta Masina, una disperata mamma senza marito e senza patrimonio che pure è lieta nel vivere la sua esistenza da indigente. Irene le trova un lavoro in fabbrica, ma lei preferisce andare a un ennesimo (e probabilmente sfortunato) appuntamento galante. A quel punto è Irene stessa a sostituirsi nella giornata alla catena di montaggio, verificando in prima persona tutto il degrado di quella condizione lavorativa.
Oltre il neorealismo, ma senza anti-realismo
Diversi osservatori esaltarono il rigore registico del cineasta italiano che, pur di eliminare qualsiasi elemento anti-realista dalla scena, scelse di trasformare in immagini uno script assolutamente didattico. Ma il punto è che ci troviamo di fronte a una considerazione da respingere: Rossellini è anzi presente in modo evidente, sia nelle scelte più strettamente registiche, sia nella scrittura delle sequenze. Ed è proprio in questo suo volersi non nascondere dietro una macchina da presa neutra che si cela lo scarto rispetto al regista che aveva realizzato i grandi titoli appartenenti al periodo neorealista. C'è un Rossellini disperato nella volontà di esasperazione della trasformazione di Irene, c'è un Rossellini furioso nella messa alla berlina della società borghese che nel centro di Roma viveva al di sopra delle proprie possibilità e c'è un Rossellini inevitabilmente attratto dai misteri di una fede senza credo religioso. C'è anche un Rossellini che gioca con il mezzo, innegabilmente. Un gioco terribilmente tragico, però, nel suo sottolineare le decisioni di messa in quadro nei momenti di massima drammaticità della vicenda. Come ignorare la ripresa in pieno stile noir della tromba delle scale post-suicidio (quasi ad evocare l'orgoglio espressionista di certo cinema di genere hollywoodiano)? O la scena dell'abbraccio fra mamma e figlioletto, con i corpi obliqui e le espressioni addolorate, come un dipinto rinascimentale di allegoria cristiana? E ancora, come ritenere di trovarsi di fronte al lavoro di un autore connotato ideologicamente e per questo annullato nel suo stesso pensiero, di fronte alle spettacolari riprese in interni di tutta la prima parte dell'opera? Una capacità di sguardo e di utilizzo della macchina da presa per riprendere scene di vita quotidiana alto-borghese che farà la fortuna di Rossellini in un altro periodo della sua carriera, quell della televisione didattica e dell'intento storicistico dietro l'oggetto filmato. Ecco perché, dopo tutto, "Europa '51" è un definitivo addio al periodo neorealista: perché l'autore c'è e la sua presenza sul set vuole farsi notare, la spinta per un racconto puramente oggettivo è solo negli intenti, dopodiché la macchina-cinema diventa indispensabile per riprendere, interpretare, filtrare.
Riflessione a parte meriterebbe poi la vocazione puramente religiosa dell'autore. Ci troviamo di fronte forse al film più spirituale di Rossellini, non tanto e non solo nelle tematiche fondanti, ma per una identificazione e sovrapposizione fra la protagonista Irene e Maddalena, Maria, Gesù. Prima donna peccatrice redenta, poi madre misericordiosa che accudisce, infine un nuovo Messia disconosciuto dalla folla, disposto al martirio pur di portare l'insegnamento ai fedeli. Il finale del distacco, con il primo piano di Bergman dietro le sbarre del manicomio e i suoi amici delle borgate che là fuori urlano "è una santa!", è la nuova Resurrezione, finite le sofferenze, resta solo il misticismo del mistero della fede. Una scelta allegorica di potenza annichilente, quella messa in scena da Rossellini. Un'opera, "Europa '51", criticata e dileggiata, rinnegata dai cattolici e dai comunisti, oggetto misterioso e misconosciuto per decenni, finché Martin Scorsese non ebbe il coraggio di sostenere nel suo celeberrimo "Il mio viaggio in Italia" che si trattava di una pietra miliare per il nostro cinema, perché aveva ispirato generazioni di autori contemporanei e successivi, italiani e non. Come dargli torto. Qui Rossellini è Pasolini, con il degrado delle sue borgate e lo spirito di comunanza che le contraddistingue; è Dreyer per quel saper tenere lontano dall'obiettivo della cinepresa facili formalismi, senza rinunciare a un'indagine sulla complessità morale dell'essere umano; ed è persino un pezzo di New Hollywood per quel suo raccontare la condizione femminile piena di inquietudini, a qualsiasi livello sociale.
cast:
Ingrid Bergman, Alexander Knox, Ettore Giannini, Giulietta Masina, Teresa Pellati
regia:
Roberto Rossellini
distribuzione:
Lux Film
durata:
113'
sceneggiatura:
Sandro De Feo, Ivo Perilli, Mario Pannunzio, Brunello Rondi.
fotografia:
Aldo Tonti
scenografie:
Virgilio Marchi
montaggio:
Jolanda Benvenuti
costumi:
Fernanda Gattinoni
musiche:
Renzo Rossellini